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Adesso leggiamo decine di articoli sulla pazzia legata al terrorismo jihadista, adesso scopriamo che (forse) il terrorista di Nizza Mohamed Lahouaiej Bouhlel aveva seri problemi psichici, adesso si dà risalto all’analisi francese sui foreign fighters in base alla quale il 10 per cento di coloro che sono andati a combattere in Siria o in Iraq è schizofrenico (vedi il Corriere della Sera del 17 luglio). Ma prima? Perché in Italia la prevenzione resta solo quella più ovvia, cioè quella delle forze dell’ordine e dell’intelligence? Mentre è evidente dalle recenti decisioni del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e dalla circolare inviata dal capo della Polizia, Franco Gabrielli, a questure e prefetture che la tensione è palpabile, siamo all’anno zero su una prevenzione che scavi nel profondo della società, lì dove ci sono milioni di potenziali “sentinelle” che vanno però adeguatamente “istruite” e dove il pazzo e l’asociale potrebbero essere individuati in tempo.

E’ certo che non tutti i potenziali terroristi o lupi solitari sono labili psichicamente, ma è altrettanto certo che spesso non si dà peso a dettagli che possono meritare un approfondimento semplicemente perché non si è in grado di coglierli. Su Formiche.net sono già stati pubblicati articoli su questo tema con riferimento al progetto di legge presentato nel gennaio scorso da Stefano Dambruoso (Sc) e da Andrea Manciulli (Pd), su “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista”, analogamente a quanto avviene in altri Paesi europei. La norma, auspicata da chi si occupa tutti i giorni di antiterrorismo, prevede tra l’altro una formazione specialistica per le forze di polizia; un Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri, incentivando la formazione dei docenti; la creazione presso il ministero dell’Interno di un sistema informativo sui fenomeni del radicalismo jihadista nel quale dovranno convergere tutte le informazioni sui soggetti e le situazioni da monitorare; l’inserimento dei soggetti a rischio, individuati da questo sistema, nel mondo del lavoro con percorsi specifici e accesso a cooperative sociali; un portale informativo per diffondere una “narrativa alternativa” a quella jihadista, che proprio sul web attira i giovani, e il principio dell’”uguaglianza di genere” sancita dalla Costituzione.

Il testo è alla commissione Affari costituzionali della Camera, ma finora è stato discusso molto velocemente in sole tre sedute, l’ultima il 23 giugno quando Dambruoso ha sollecitato un ciclo di audizioni e la relatrice Barbara Pollastrelli (Pd) non solo ha concordato, ma ha auspicato che l’iter in commissione possa terminare addirittura prima delle ferie estive. Come si riuscirà a organizzare diverse audizioni in pochi giorni non è chiaro, visto che non risultano nuove convocazioni su questo provvedimento. Il lentissimo iter della proposta Dambruoso-Manciulli spiega perfettamente l’approccio politico alla questione: considerando che gli effetti di queste norme, una volta approvate, saranno valutabili in tempi medio-lunghi, si dovrebbe procedere di gran carriera nonostante la media di due giorni alla settimana di lavori parlamentari. Ma non è così.

In un comunicato stampa della Commissione europea del 14 giugno, nel quale si elencavano alcune misure di supporto agli Stati membri nella lotta alla radicalizzazione, si sottolineava l’importanza di agire anche a livello locale o regionale, citando insegnanti, giovani, psicologi, comunità di vario tipo fino alle polizie locali indicati come i soggetti ideali per prevenire e individuare elementi di radicalizzazione. E’ esattamente lo scopo di quelle norme. Ma non ne parla nessuno, aspettando il prossimo attentato.

Come si cincischia in Parlamento sulla prevenzione del radicalismo jihadista

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