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Nella temperie anni Trenta del XX secolo che si respira in ogni dove nelle nostre cronache tormentate, non mi stupisco più di tanto nell’osservare come sia stata riesumata una teoria che a quel tempo rimanda, essendo stata elaborata per spiegare la depressione, che ancora nelle seconda metà di quel decennio, animava l’economia internazionale. Sto parlando della cosiddetta stagnazione secolare, che ormai campeggia nelle nostre cronache come un ospite indesiderato perché oggi come allora non si capisce perché mai, e malgrado gli sforzi inusitati messi in campo, le economie del mondo camminino al rallentatore e sempre sotto la minaccia di improvvisi shock, come accadde nel ’37 in quella americana.

Era ora perciò, mi dico leggendo l’ultima relazione annuale della Bis, che qualcuno si prendesse la briga di andare a vedere quanto questa tardiva riesumazione del passato, l’ennesima, poggi su basi fondate oppure sia un altro mito che amiamo raccontarci perché la realtà poco si confà con le nostre convinzioni.

Quest’ultima, spiega la Bis, presuppone che “il mondo sia afflitto da una carenza strutturale di domanda aggregata. Questa carenza esiste da prima della crisi ed è determinata da una serie di fattori ben radicati, fra cui l’invecchiamento della popolazione, una distribuzione del reddito iniqua e i progressi della tecnologia”. Gli assertori di questa teoria ipotizzano che “il boom finanziario precedente la crisi era il prezzo da pagare perché l’economia potesse procedere in linea con il suo potenziale.
Il sintomo chiave di questo malessere è il declino dei tassi di interesse reali, sia a breve sia a lungo termine, che rimanda a pressioni disinflazionistiche endemiche”.

La Bis, va detto subito, ha un’idea diversa, ossia che “l’economia mondiale abbia pagato il prezzo di una serie di boom finanziari finiti male”. “Nell’ipotesi che proponiamo qui – osserva – il mondo è afflitto dall’incapacità di tenere sotto controllo boom finanziari che, una volta implosi, provocano danni duraturi. Lo smisurato e insostenibile boom finanziario che ha preceduto la crisi ha mascherato e aggravato il declino della crescita della produttività. E invece di essere il prezzo da pagare per un andamento soddisfacente dell’economia, ha contribuito, almeno in parte, al suo deterioramento, sia in forma diretta sia per effetto delle conseguenti contromisure di policy. Il sintomo decisivo del malessere è il declino dei tassi di interesse reali, sia a breve sia a lungo termine, accanto a rinnovati segnali di crescenti squilibri finanziari”.

Chi pensasse che questa sia una noiosa diatriba fra studiosi sottovaluterebbe il problema. Ogni visione porta con sé necessariamente non solo premesse tecnicamente e spiritualmente differenti, ma anche diversi suggerimenti circa la possibilità di porre rimedio agli squilibri. E il punto centrale della discordia fra le due visioni è basato sull’elemento chiave del nostro pensare economico: il livello del tasso di interesse.

Secondo i teorici della stagnazione secolare, “e più in generale secondo le prospettive dominanti”, i tassi bassi del nostro tempo sono necessari “per colmare una carenza di domanda a livello mondiale che esisteva già prima della crisi”. Ossia: poiché c’è poca domanda – intesa nelle sue varie sfaccettatura macroeconomiche, quindi di beni e per conseguenza di investimenti e di credito – il tasso non può che declinare adeguandosi ai fondamenti dell’economia. Il segnale che conferma questa impostazione deve cercarsi nel tasso di inflazione. I prezzi freddi, in sostanza sono la conferma della stagnazione secolare, che dipende dai fattori storici che abbiamo visto. Il tasso di interesse scende e scenderà finché gli attori dell’economia non giudicheranno che sia abbastanza per rimettersi a far girare la macchina.

Al contrario, gli studiosi della Bis vedono proprio nella deriva dei tassi di interesse la fonte dei problemi, non l’effetto ma la causa dello spirito del Secolo. “I tassi di interesse non possono essere pienamente in equilibrio se contribuiscono a squilibri finanziari che presto o tardi provocheranno danni seri all’economia”. Quindi il loro declinare, che favorisce gli squilibri, la fonte del problema, non la soluzione. “Allo stesso modo, l’inflazione è una misura estremamente imprecisa per valutare le espansioni economiche sostenibili, come evidente già prima della crisi”. Ricordo che durante la cosiddetta Grande Moderazione, quando la crescita era associata a un’inflazione bassa, si alimentarono i boom finanziari che poi condussero alla crisi del 2008. E poi viene ricordato che i prezzi freddi – ossia il segnale osservato dai sostenitori della stagnazione secolare – sono un “fatto non così inatteso in particolare in un mondo soggetto a elevata globalizzazione, in cui le spinte concorrenziali e la tecnologia hanno eroso il potere di imporre i prezzi dei produttori e della manodopera e hanno reso molto meno probabili le spirali salari-prezzi del passato”.

La Bis ammette che è davvero arduo stabilire quale delle due ipotesi sia più corretta, ma si leva anche la soddisfazione di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Ricorda ad esempio che la teoria era stata elaborata per gli Usa e proprio gli Usa sono il paese che sembrano non confermarla, visto che esibiscono un cospicuo deficit di conto corrente, ossia la dimostrazione che la domanda interna sia superiore alla produzione, venendo così a mancare il presupposto della carenza di domanda. Inoltre, osservano l’invecchiamento della popolazione influenza di sicuro la domanda, ma anche l’offerta, visto che persone più anziane sono meno produttive. “Infine, il calo dei tassi di disoccupazione, in molti casi a livelli prossimi ai parametri storici o alle stime sulla piena occupazione, sembra segnalare limiti dell’offerta più che carenze della domanda”.

Mentre sfata uno dei miti contemporanei, la Bis ha il pregio di ricordarci che ogni narrazione economica, compresa la sua, deve necessariamente costruirne un’altra. Come si decide, ad esempio, quale sia il tasso d’interesse di equilibrio di un’economia, ossia la variabile oggetto del contendere? “È importante sottolineare – scrive – che tutte le stime dei tassi di interesse di equilibrio nel lungo periodo, sia a breve sia a lungo termine, sono inevitabilmente basate su una qualche visione implicita del funzionamento dell’economia”. Le stime basate sulle serie storiche, ad esempio assumono che il tasso espresso nel tempo sia stato sempre quello corretto. “Questa incertezza suggerisce che potrebbe essere imprudente fare forte affidamento sui segnali di mercato per esprimere giudizi su equilibrio e sostenibilità”, conclude.

Come vedete, tutto alla fine si risolve nel paradigma teorico tramite il quale ci creiamo rappresentazioni dei fatti. L’ubriacatura macroeconomica, ulteriore invenzione degli anni Trenta del XX secolo, richiederà tempo, pazienza e purghe per essere smaltita. Ma questo la Bis non lo dice.

D’altronde anche lei è nata negli anni Trenta.

Twitter: @maitre_a_panZer

A proposito del mito della stagnazione secolare

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