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Questa volta i graffi fanno male anche a me, costandomi molto sul piano umano polemizzare con l’amico Bobo Craxi, figlio di Bettino: il leader socialista che mi sedusse politicamente, ed elettoralmente, per il coraggio avuto di sottrarre nel 1976 il Psi alla egemonia comunista cui l’aveva ridotto Francesco De Martino. Il quale aveva annunciato dalla sua Napoli la indisponibilità a riportare i socialisti al governo, dopo anni di alleanza con la Dc all’insegna del centrosinistra, senza la partecipazione o l’appoggio del Pci, allora guidato da Enrico Berlinguer.

Fui politicamente grato a Bettino di avere restituito dignità e agibilità all’anticomunismo. Che i comunisti, con l’aiuto decisivo della sinistra democristiana, erano riusciti a confinare nel recinto di un conservatorismo reazionario: loro, poi, che come conservatori non scherzavano, sino a considerare a lungo il riformismo una parolaccia, sinonimo di tradimento o di fascismo mascherato.

Fu proprio per difendere il riformismo craxiano dagli attacchi e sgambetti combinati del Pci e della Dc, allora guidata da Ciriaco De Mita, che nel 1983 si consumò nel Giornale fondato e ancora diretto da Indro Montanelli una dolorosa rottura. Enzo Bettiza e io preferimmo andarcene – altro che licenziati, secondo le cronache del biografo postumo di Montanelli, l’attuale direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio – piuttosto che rinunciare alle nostre convinzioni pur di rimanere nella prestigiosa scuderia di Indro.

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A dramma craxiano consumato, dopo che i comunisti e gli altri avversari o concorrenti di Bettino, cavalcando le sue disavventure giudiziarie per il finanziamento generalmente illegale della politica, lo costrinsero a rifugiarsi nella sua nota e ben riconoscibile casa di Hammamet, cioè l’opposto di un covo dove si nasconde un latitante, come i suoi nemici invece lo definirono, e avrebbero poi inciso anche sulla tomba se ne avessero avuto la rivoltante possibilità; a dramma craxiano consumato, dicevo, compresi la sofferenza del tentativo compiuto da Bobo Craxi di convivere, come deputato eletto a Trapani nelle liste berlusconiane di Forza Italia, con alleati come i leghisti di Umberto Bossi e i post-missini di Gianfranco Fini. Che avevano partecipato fisicamente, nelle piazze e in Parlamento, al linciaggio del padre, senza mai trovare il coraggio, l’onestà o solo il buon gusto poi di dolersene, quando divennero ancora più evidenti le storture delle indagini su Tangentopoli e si cominciò a reclamare un’inchiesta parlamentare.

Compresi negli anni successivi anche la sofferenza che credo avesse procurato a Bobo, una volta uscito dal centrodestra, la compagnia politica di Massimo D’Alema, di cui egli fu leale sottosegretario agli Esteri nel secondo governo di Romano Prodi. Quello stesso D’Alema, però, che come presidente del Consiglio non aveva ritenuto di derogare alle regole burocratiche per firmare con tanto di nome e cognome un messaggio di saluto inviato per via diplomatica a Bettino, appena operato a Tunisi e purtroppo prossimo alla morte, salvo poi offrire da Roma funerali di Stato dignitosamente rifiutati dalla famiglia.

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Tanta è stata purtroppo la comprensione mostrata da Bobo verso D’Alema quanta si è rivelata in questi giorni la incomprensione verso quel poco che rimane nominalmente del Partito Socialista, di cui è stato appena rieletto segretario dal congresso svoltosi a Salerno il vice ministro Riccardo Nencini. Un congresso al quale il figlio di Craxi ha voluto mancare, preferendo una manifestazione di dissenso a Roma dalla linea di Nencini, troppo schiacciata, secondo lui, su Matteo Renzi. Di cui Bobo ha lamentato di recente, anche nel salotto televisivo di Lilli Gruber, a La 7, certi aspetti autoritari, un rapporto troppo conflittuale con i sindacati e altro ancora, sino a prenotare il no nel referendum d’autunno sulla riforma costituzionale, decisivo per la sorte politica dell’ex sindaco di Firenze e del suo governo.

Al netto di un temperamento che spesso non piace neppure a me, dei limiti che certamente non mancano alla sua riforma del bicameralismo, della selezione non sempre avveduta dei suoi collaboratori, ministeriali e non, e soprattutto della paura-  sì, paura – che gli ho di tanto in tanto rimproverato su Formiche.net di mettere anche Bettino Craxi nel Pantheon del riformismo da lui predicato, preferendogli addirittura la memoria di Enrico Berlinguer, che scambiava le riforme craxiane per attentati alla democrazia; al netto, dicevo, di tutto questo, che non è poco, non posso negare a Renzi il merito e il coraggio di avere in qualche modo vendicato Craxi rottamandone letteralmente nel Pd e nella sinistra gli avversari, a cominciare da D’Alema. E mi spiace che il mio amico Bobo sia fra i pochi o i molti, non so, che non se ne sono accorti. O non vogliono accorgersene, preferendo forse guardare più ai dettagli che al quadro d’insieme di una sinistra moderna e decisionista: quella vigorosamente rappresentata da Bettino nei suoi anni d’oro e che Renzi cerca ora di riproporre agli italiani, pur fingendo opportunisticamente  di averla scoperta e di praticarla lui per primo.

Altro che il figlioccio del declinato Silvio Berlusconi, o il nipote del defunto Amintore Fanfani, o il pronipote di Giovanni Giolitti, come ha preferito rappresentarlo di recente Eugenio Scalfari, irriducibile anticraxiano anche alla sua veneranda età. Renzi è il figlioccio politico, consapevole o no, del papà di Bobo Craxi.  E di Stefania, mia carissima amica pure lei, cui voglio bene come ad un sorella, ma che so critica e diffidente, come il fratello, del presidente del Consiglio e segretario del Pd.

Perché Bobo Craxi sbaglia su Nencini e Renzi

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