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Turbato pure lui, immagino, dalla vittoria della Brexit, sopraggiunta nella notte ai primi dati del referendum inglese che davano in vantaggio la permanenza di Londra nell’Unione Europea, il presidente del Consiglio italiano si è forse posta nell’intimo, a dispetto della sicurezza appena ostentata in una intervista rilasciata alla Stampa, qualche domanda sul rischio che potrebbe correre nel referendum d’autunno sulla sua riforma costituzionale.

L’ombra di quella che potremmo chiamare Rexit – l’uscita cioè di Renzi dalla scena – è d’altronde già comparsa nella redazione del giornale più intelligentemente schierato sul fronte renziano, con frequentissime punzecchiature al sempre amico Silvio Berlusconi per la sua rigida opposizione all’ex sindaco di Firenze e segretario del Pd. “Il primo assedio a Renzi”, ha titolato in rosso Il Foglio. Che, prima ancora di conoscere l’esito della quasi parallela partita inglese, ha spiegato nel sommario: “Per la prima volta il Pd mette a tema l’indicibile: cosa si fa se il governo finisce davvero Ko? Trame, sospetti, tradimenti possibili”.

Poco prima che al Foglio esprimessero i loro timori, nell’aula del Senato l’amico e co-editore Denis Verdini, di nuovo convergente con i senatori di Forza Italia e con una parte del gruppo dove siedono insieme i centristi di Angelino Alfano e di Pier Ferdinando Casini, anche se quest’ultimo si considera ormai fuori dalla mischia, mandavano sotto il governo in una votazione apparsa a molti, a torto o a ragione, un campanello d’allarme. Era in gioco, per ora, soltanto l’entità della pena per il reato di terrorismo nucleare, aumentata con un emendamento dei parlamentari berlusconiani.

Contemporaneamente si è levata da una riunione dei dissidenti del Pd la minaccia di non votare più la fiducia, se il governo dovesse riproporla su provvedimenti controversi, cioè non condivisi dalle minoranze del partito.

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Renzi, che non è certamente tipo da scoraggiarsi, se la giocherà naturalmente tutta.  Non a caso egli ha deciso di presentarsi alla direzione del Pd, che è stata però rinviata alla settimana prossima per “riflettere” sui cattivi, a dir poco, risultati delle elezioni amministrative di giugno, rilanciando il programma e il tema delle riforme, invitando o sfidando, come preferite, critici ed avversari a formulare proposte alternative, rifiutando la prospettiva –ha detto alla Stampa- di “alchimie dorotee”, alla maniera cioè compromissoria e ambigua della vecchia Democrazia Cristiana, diffidando le correnti dal sognare “caminetti” attorno ai quali legare le mani o i piedi del segretario e promettendo solo “delusioni” a chi attende le sue dimissioni, cioè la sua resa.

Ma dietro questo linguaggio forte c’è una situazione meno solida. C’è, per esempio, una crescente pressione, nel partito e fra gli alleati, vecchi e nuovi, per una modifica della nuova legge elettorale allo scopo di ostacolare una eccessiva semplificazione del quadro politico con il premio di maggioranza non alla coalizione, come avveniva prima, ma alla lista più votata: cosa che, specie dopo i ballottaggi comunali del 19 giugno, potrebbe risolversi in un affarone per i grillini.

C’è inoltre una non meno crescente pressione, nel partito, per la cosiddetta “spersonalizzazione”, per quanto ormai difficile, del referendum di ottobre sulla riforma costituzionale. C’è persino il rischio di qualche nuovo problema giudiziario, visto che il presidente del Consiglio è stato appena ascoltato dagli inquirenti come persona informata dei fatti per una vicenda di sospetti guadagni in borsa conseguiti da investitori in titoli di banche popolari mentre il governo varava un decreto che le riguardava.

In questa storia di guadagni di borsa finiti all’esame dei magistrati, per quanto la Procura di Roma abbia chiesto l’archiviazione dopo averlo sentito, Renzi è stato curiosamente chiamato involontariamente in causa da un editore che lo stima: quello di Repubblica, Carlo De Benedetti. Che, dalle cronache giudiziarie sinora non smentite, risulta avesse disposto a suo tempo per telefono investimenti per 5 milioni di euro, e ricavato utili per 600 mila euro, dicendo di avere avuto notizie da Palazzo Chigi.  Il che, se confermato, non sarebbe una bella cosa né per Renzi né per i suoi collaboratori, a prescindere dalle responsabilità personali che dovessero essere accertate, e che potrebbero non riguardare direttamente il presidente del Consiglio.

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In questo quadro difficile si inseriscono anche vicende, diciamo così, minori. Come il problema delle dimissioni o della rimozione del presidente del partito Matteo Orfini da commissario del Pd a Roma posto dalla giovane ministra romana Marianna Madia, fra il dissenso e le proteste del vice segretario Lorenzo Guerini, per la débacle elettorale dei piddini. O come la divertente, ma anche urticante, ironia dell’imperdibile Staino. Che, designato col consenso di Renzi alla nuova direzione della storica Unità fondata da Antonio Gramsci, ha invitato il segretario del partito nella sua vignetta quotidiana a “stare sereno”. Si spera, per Renzi, non alla maniera in cui lo stesso Renzi, fresco di elezione alla guida del Pd, garantì serenità all’allora presidente del Consiglio Enrico Letta, destinato ad essere politicamente licenziato dopo qualche settimana soltanto.

La satira, a volte, si sa, fa più male di un discorso o di una intervista.

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Anche le ossessioni fanno male. Lo si è visto nel salotto televisivo di Porta a Porta, dove il conduttore Bruno Vespa ha dovuto fronteggiare a muso duro il solito capogruppo forzista della Camera Renato Brunetta, che gli contestava di avere ospitato, in collegamento da Londra sul referendum per la Brexit, il noto finanziere Davide Serra omettendo di ricordarne l’altrettanto nota amicizia con Renzi. Che evidentemente Brunetta avverte nell’intimo come una colpa, al pari di quanto si considerava quasi un reato l’amicizia con il suo e il mio Bettino Craxi.

Una volta mi capitò di dire in trasmissione a Parlamento in, fra i borbottii anche di Silvio Berlusconi, che mi sarei costituito se e quando l’amicizia col segretario socialista fosse diventato davvero un reato. Non immaginavo di dovere arrivare molto vicino a quel passo.

Matteo Renzi

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