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Ha ragione monsignor Nunzio Galantino, quando dice – intervenendo a precisare la posizione della Cei sul referendum sulle trivelle – che “gli slogan non funzionano”, e che “il punto non è dichiararsi pro o contro alle trivelle, ma l’invito a creare spazi di incontro, di confronto”.

Monsignor Galantino si riferiva, evidentemente, all’assenza di una discussione ragionata a referendum ormai indetto.
Ma, a ben vedere, quell’evocazione di spazi di incontro e confronto che non ci sono, e perciò da creare, va oltre la semplice contingenza della dialettica che sta riempiendo i pochi giorni che ci separano dal 17 aprile.

Questo vuoto di spazi di incontro e confronto che monsignor Galantino invita a colmare è il filo rosso che lega tante vicende dell’Italia del nostro tempo: la prossima consultazione referendaria, la ritirata della Shell dai giacimenti nel golfo di Taranto (con dirottamento altrove dei 2 miliardi di euro in investimenti programmati in Italia), quella di Petroceltic dai giacimenti in Adriatico nelle acque internazionali al largo del Molise, del Gargano e delle isole Tremiti, e molte altre ancora, anche – occorre puntualizzarlo – del tutto estranee all’ambito dell’upstream (dalla TAV alla gronda di Genova, dalla localizzazione dei termovalorizzatori alla realizzazione di infrastrutture autostradali, eccetera).

Nessuno potrebbe seriamente dire che ricorrendo al débat public l’esito sarebbe stato di certo diverso, ma intanto è sicuro che – senza débat public – tutte queste vicende sono finite come sappiamo. Che fare?

Lo spazio di incontro e confronto – per usare le parole di monsignor Galantino – che manca e va creato ha un nome preciso (débat public) e una logica operativa netta, anche perché ben noto all’esperienza di altri Paesi (la Francia, in primo luogo).

Confrontarsi con gli stakeholder (il territorio e i suoi comitati, anzitutto), in modo aperto e muovendo da evidenze scientifiche, attraverso quel parlarsi “prima” (e quindi fuori) del procedimento amministrativo vero e proprio, senza escludere l’opzione zero (all’insegna del “meglio non iniziare neppure quel che qui non mi sarà consentito di finire, e che potrebbe invece farsi altrove”): questa è l’essenza di un débat public che nel diritto statale italiano sinora non è mai stato contemplato e regolato.

Nell’illusione, figlia anche di una tradizione giuridica a tratti polverosa, che l’ecosistema asettico e fortemente ritualizzato rappresentato dal procedimento amministrativo, affidato a tecnocrati senza nome e senza volto, restasse comunque il luogo migliore per prendere una decisione perfino su fattispecie ad intuitivo tasso di delicatezza come quelle sopra richiamate. La prova più chiara la offre la pervicace ostinazione del legislatore, da anni e anni, nel modificare ad ogni piè sospinto la disciplina della conferenza di servizi, supponendo che là sia da ricercare il problema e, di riflesso, la soluzione.

Oltre a questo gap di ordine essenzialmente culturale, al legislatore italiano è però imputabile anche un doppio deficit di attenzione.

È stato infatti ignorato, per un verso, lo spunto offerto dalla Corte costituzionale nella sentenza numero 81 del 2013, laddove è stato detto a chiare lettere, riguardo alla natura della decisione finale in tema di VIA, che “in quest’ultimo atto a verifiche di natura tecnica circa la compatibilità ambientale del progetto, che rientrano nell’attività di gestione in senso stretto e che vengono realizzate nell’ambito della fase istruttoria, possono affiancarsi e intrecciarsi complesse valutazioni che – nel bilanciare fra loro una pluralità di interessi pubblici quali la tutela dell’ambiente, il governo del territorio e lo sviluppo economico – assumono indubbiamente un particolare rilievo politico”. È perciò ammissibile, questa la conclusione della Corte, che l’ultima parola sia del decisore politico, anche a livello regionale (quando si tratti di VIA regionale). Siamo, come si vede, oltre – appunto – la dimensione propria del procedimento amministrativo in senso stretto.

Ma è stata anche ignorata, per altro verso, la circostanza che nel perdurare dell’assenza di una cornice normativa di carattere statale su débat public, le Regioni stanno già da tempo facendo uso del proprio potere legislativo, al riguardo (si pensi alla nota legge regionale numero 259 del 2013 della Toscana, che lo ha previsto come obbligatorio per gli interventi dai 50 milioni di euro in su).

Nella delega finalizzata al riordino del Codice degli appalti pubblici ora in corso di attuazione, al Governo è stato finalmente dato mandato di dotare il nostro Paese di una disciplina statale del débat public. È un’opportunità, ma può diventare un problema.
Sul punto, occorre infatti essere chiari: il tema della democrazia partecipativa è troppo importante e delicato, specie in questo tornante della Storia, per sperimentare e andare per tentativi. Al Paese va dato un modello chiaro, netto, non irrisolto o in bilico fra una cosa e il suo contrario. Detto altrimenti, delle due l’una: o una buona norma sul débat public, oppure è meglio nessuna norma.

Muovendo da questa premessa, è da dire che il parere appena esitato dal Consiglio di Stato sullo schema di decreto di attuazione della delega evidenzia, riguardo all’articolo (22) dedicato al débat public, criticità oggettive, non banali (nell’insieme, si parla di normativa lacunosa e non chiara, in cui il decreto attuativo rimette perfino in discussione, in parte, il principio dell’obbligatorietà del ricorso a questo strumento fissato dalla delega, né, prosegue il parere, sono ben regolati tempi e modi con i quali cittadini e comitati potranno manifestare l’interesse a partecipare al dibattito). Ne esce (dallo schema di decreto, non dal parere) una fotografia del futuro débat public all’italiana che appare lontana dal modello francese, il quale è certamente perfettibile ma di sicuro non negoziabile negli assi portanti (preventività e obbligatorietà del débat, chiarezza dei ruoli e delle prerogative dei partecipanti, affidamento della sua gestione ad un’authority terza a forte connotazione di indipendenza, eccetera).

Ci permettiamo pertanto di chiudere con una battuta: se esistessero gli appassionati del genere “confusione degli assetti istituzionali”, il livello al riguardo raggiunto dal nostro Paese dovrebbe essere considerato, diciamo, già soddisfacente. Sconsiglieremmo vivamente un innalzamento.

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