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Nei suoi Elementi di scienza politica Gaetano Mosca scriveva che due qualità essenziali per le classi dirigenti dovrebbero essere la lealtà verso i subordinati e il coraggio personale. Se queste qualità non sono in realtà mai state decisive per l’affermazione di una classe politica, probabilmente non lo sono neppure oggi, nell’età della “democrazia del pubblico”. E così il futuro del Movimento 5 Stelle – per quanto le sue fortune siano state finora effettivamente legate proprio all’immagine di una forza politica capace di sfidare a viso aperto la “casta” e di smascherarne le menzogne – non si giocherà su questo terreno (o quantomeno non solo su questo). Se oggi, dopo il “caso Quarto”, la formazione fondata da Grillo è oggetto della prima crisi di credibilità, è infatti agevole prevedere che anche nel prossimo futuro continuerà a rappresentare la più insidiosa spina nel fianco per il Partito Democratico di Matteo Renzi (almeno fino a quando il fronte di centro-destra non tornerà a coagularsi attorno a una leadership unitaria). D’altronde negli ultimi due anni i sondaggi hanno costantemente attribuito al Movimento percentuali in ascesa o comunque in linea rispetto al risultato delle elezioni del 2013. E per quanto la capacità previsionale dei sondaggi abbia ultimamente mostrato ben più di qualche limite, questi dati testimoniano che, presso una fetta consistente dell’opinione pubblica italiana, non si è ancora offuscata l’immagine di formazione “anti-sistema” – o “anti-casta” – che tre anni fa aveva sancito l’exploit della lista pentastellata. Se in questo senso il “partito liquido” di Grillo sembra avere stabilito almeno in parte un legame di identificazione con il proprio elettorato, sarebbe però ingenuo sottovalutare i problemi che si troverà ad affrontare da qui alle prossime elezioni politiche. Perché le insidie più rilevanti sono legate proprio al successo del Movimento e al fatto che, alla prossima scadenza elettorale, non sarà sufficiente innalzare le bandiere della protesta, ma diventerà necessario mostrare anche il volto di potenziale – e credibile – forza di governo.

Naturalmente, alla domanda se oggi i parlamentari pentastellati abbiano le carte in regola per accedere al governo, la risposta rischia di essere scontata. L’assenza di esperienza amministrativa – anche a livello locale – da parte della classe politica nazionale del Movimento non può infatti non pesare negativamente, e non poco, sulla credibilità di un’alternativa di governo al “renzismo”. E inoltre le esperienze tutt’altro che esaltanti di alcune amministrazioni locali a guida M5S non contribuiscono certo a indebolire l’impressione che una vittoria della formazione “grillina” alle prossime politiche potrebbe assomigliare a una sorta di imprevedibile “salto nel buio”. Accanto a questo, è però necessario riconoscere che, dal momento del loro ingresso in Parlamento, deputati e senatori del Movimento hanno appreso rapidamente le regole della politica spettacolo. E nonostante il piano della comunicazione sia ben differente da quello della concreta attività di governo, l’impatto con la realtà della politica parlamentare e la pratica dei talk-show hanno fatto emergere nuovi leader, che non solo hanno ormai un ruolo riconosciuto, ma godono anche di livelli di credibilità non trascurabili presso l’opinione pubblica. Proprio per questo non si può scartare l’ipotesi che, seppur in nuce, i futuri leader di governo si trovino già oggi tra i banchi dei pentastellati. Al di là delle capacità dei singoli, la difficoltà principale che il M5S dovrà superare nei prossimi mesi per accreditarsi come credibile alternativa di governo ha però a che vedere con la stessa identità del Movimento. Un’identità che, a ben guardare, non è più quella del 2013.

Oggi il M5S ha infatti ormai molto poco del “partito personale” di Grillo e Casaleggio, che tre anni fa portò a Roma giovani del tutto sconosciuti. Ma tre anni di attività politica hanno sostanzialmente dissolto, o comunque posto in secondo piano, anche molti dei cardini “ideologici” del movimento. E prima di tutto l’idea – quantomeno naïf – secondo cui la democrazia diretta della Rete avrebbe offerto una valida alternativa alla democrazia parlamentare, di cui anzi, di fronte alle riforme renziane, i pentastellati sono diventati per molti versi agguerriti difensori. Naturalmente i programmi non sono l’arma decisiva per vincere le elezioni, e il problema per il Movimento 5 Stelle non consisterà dunque solo nello stilare una serie di misure, più o meno convincenti e originali. Per costruire una narrativa credibile, dovrà piuttosto ritrovare dei punti simbolicamente forti, che differenzino in modo sostanziale – non solo invocando una diversità “morale” – la propria offerta da quella dei contendenti su alcuni punti chiave, come in particolare il rapporto con l’Ue, la moneta unica e i flussi migratori. Ed è forse proprio qui che si nasconde il dilemma principale. Perché è probabile che la necessità di diradare la nebbia che nel 2013 ancora avvolgeva i propri programmi debba mettere a dura prova uno dei fattori principali del successo del Movimento 5 Stelle. Ossia la sua immagine di forza “post-ideologica” (e forse persino “post-politica”), non riconducibile né alla destra né alla sinistra, e per questo capace di raccogliere i voti dei delusi di ogni schieramento.

(Articolo uscito sull’ultimo numero della rivista Formiche)

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