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Un destino non so se più beffardo o paradossale ha voluto che il centrodestra italiano sorgesse e tramontasse, nell’arco di poco più di 22 anni, sulle scalinate del Campidoglio, rovesciato alla fine come un passeggino fortunatamente vuoto: quello della gestante sorella dei Fratelli d’Italia.

Fu in vista del ballottaggio capitolino fra l’allora leader del Movimento Sociale Gianfranco Fini e l’ex radicale Francesco Rutelli che Silvio Berlusconi il 23 novembre 1993 annunciò a Casalecchio di Reno che avrebbe preferito il primo se avesse potuto votare a Roma, anziché nella sua Milano. Dove fino ad allora egli aveva diviso il voto, nelle elezioni politiche, fra l’amico socialista Bettino Craxi alla Camera e la vecchia amata Dc al Senato. Amata, perché ancora piena di amici, a parte la sinistra di Ciriaco De Mita che non poteva soffrirlo, ricambiata, e perché lui ancora si ricordava orgogliosamente in calzoni corti impegnato nel 1948 a incollare sui muri milanesi i manifesti elettorali dello Scudo crociato. Erano gli anni di Alcide De Gasperi, non certo del giovanissimo studente di Nusco, mandato dal padre a studiare giurisprudenza all’Università cattolica di Milano non volendolo allevare come sarto nella sua bottega campana. Dove peraltro, viste le condizioni del Paese da poco uscito disastrato dalla guerra, si rivoltavano vecchi abiti, più che farne di nuovi.

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Nel momento in cui espresse il suo voto virtuale per il leader della destra nazionale, destinato comunque ad essere sconfitto da Rutelli nella scalata al Campidoglio, Berlusconi formalizzò il ruolo al quale andava preparandosi già da mesi, incoraggiato soprattutto da Marcello Dell’Utri: quello di federatore di un’area moderata che, priva dei vecchi partiti di riferimento spazzati da Tangentopoli, rischiava di essere letteralmente travolta nelle elezioni del 1994 dalla “gioiosa” e scombinata “macchina da guerra” improvvisata dall’allora segretario del Pds-ex Pci Achille Occhetto. Che si sentiva a sua volta federatore di quelli che definiva “progressisti”, come se tutti gli altri fossero ostili al progresso, chiusi nelle loro caverne.

Nell’area moderata Berlusconi imbarcò con il suo solito ottimismo, tenendoli tuttavia distinti in coalizioni diverse, una al nord e l’altra al centro-sud, rispettivamente, anche leghisti per niente moderati, o addirittura secessionisti, ed ex o post-fascisti missini ancora in camicia nera ai tavolini dei bar attorno a Montecitorio. Gente, per dire, che nel 1992 si era radunata davanti alla sede nazionale del Psi per dare del ladro a Bettino Craxi, precedendo la folla di sinistra che l’anno dopo si raccolse davanti all’hotel Raphael per buttare contro il leader socialista monete, monetine, accendini, ombrelli e parolacce, appena omaggiato con una visita di conforto proprio da Berlusconi.

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Mi corre qui l’obbligo morale di smentire ciò che per anni fu attribuito a Craxi: il consenso alle alleanze elettorali scelte dall’allora Cavaliere nel suo esordio politico. Scelte alle quali non a caso non hanno retto entrambi i figli del leader socialista che vi hanno per qualche tempo partecipato.

Pur contento, per carità, della sconfitta elettorale subita nel 1994 dalla sinistra che lo aveva voluto politicamente morto, e non si sarebbe fermata nell’odio neppure dopo ch’egli morì anche fisicamente, il mio amico Bettino era ben consapevole dei limiti, o di quello che lui chiamava “fiato corto”, della coalizione improvvisata da “Silvio”, come chiamava Berlusconi. Un uomo ch’egli politicamente, e qualche volta anche umanamente, criticava, pur adombrandosi quando a farlo erano altri, ospiti a casa sua o nel ristorante italiano – La Scala -che frequentava ad Hammamet.

Ciò che, più in particolare o più spesso, Craxi rivendicava il diritto di rimproverare da solo a Berlusconi erano le “insolenze” contro di lui – Bettino – consentite continuamente agli alleati Fini e Umberto Bossi. E il tentativo che il Cavaliere fece, appena nominato presidente del Consiglio nel 1994, di imbarcare nel suo governo Antonio Di Pietro. O di offrirgli dopo qualche mese, come gli fu riferito, a torto o a ragione, un incarico amministrativo delicatissimo come quello di capo dei servizi segreti. Egli mi confidò di essere arrivato a quel punto a telefonare personalmente a Berlusconi per protesta, anche a costo di essere intercettato, come intuiva che già accadesse abitualmente sulle sue utenze telefoniche tunisine su iniziativa dei magistrati italiani.

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Perso per strada Fini nel 2011, dopo un anno di dispettucci e dispetti tutti a scapito della sua azione di governo, Berlusconi ne ha perso in questi giorni anche gli ultimi epigoni o imitatori, spesso già scaricati dall’originale.

Le cronache hanno riferito del pentimento del leader di Forza Italia di avere a suo tempo nominato ministra l’ancora troppo giovane Giorgia Meloni. Che ora si è opposta prima ad un accordo elettorale di centrodestra per le elezioni romane della prossima primavera con Alfio Marchini e poi a Guido Bertolaso per mettersi in corsa in proprio, con l’aiuto dei leghisti, lasciare la partita capitolina nelle sole mani dei candidati di Matteo Renzi e di Beppe Grillo, e infine, o soprattutto, affondare quel poco che è rimasto della leadership nazionale del suo ex presidente del Consiglio.

E’ una delusione comprensibile, quella di Berlusconi, ma prevedibile. E persino cercata per la facilità con la quale gli capita spesso di scambiare amici per avversari, e viceversa. Un errore francamente esiziale per un uomo politico, cui d’altronde non seppe sottrarsi neppure Craxi.

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