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Per le nazioni produttrici, il trasporto di petrolio greggio, gas naturale e derivati petroliferi, è un fattore critico almeno quanto lo sfruttamento dei propri giacimenti. Per le nazioni di transito, gasdotti e oleodotti rappresentano una opportunità per imporre diritti di passaggio. Ma per le nazioni consumatrici di energia, queste reti di trasporto rappresentano le arterie vitali che garantiscono la loro stessa sopravvivenza.

Più della metà dell’energia consumata in Europa viene da Paesi extraeuropei. Nell’ultimo decennio le importazioni sono aumentate costantemente e in futuro non si prevedono inversioni di tendenza.  Nel dettaglio, l’Europa importa l’88,4% del petrolio che consuma, il 65.3% del gas e il 44.2% del carbone. Il trasporto di ciascun tipo di combustibile comporta problematiche tecniche differenti in funzione della distribuzione dei giacimenti e dello stato fisico delle sostanze.

Il carbone è distribuito in modo abbastanza uniforme sotto la crosta terrestre, in Europa ne è particolarmente ricca la Polonia, ma la sua estrazione ed il suo consumo provocano problematiche ambientali non indifferenti. Inoltre, la movimentazione di un solido è molto più costosa di quella di un fluido, pertanto viene di solito utilizzato a distanze relativamente brevi dai luoghi di estrazione.

Il petrolio e il gas naturale si trovano in giacimenti molto più localizzati, generalmente situati attorno al Golfo Persico, in asia settentrionale e in alcuni paesi africani (Nigeria, Angola, Algeria e Libia). Altre aree produttive sono la Norvegia, Canada e Venezuela. Quando il prezzo del petrolio superava i 100 $ al barile, anche gli Stati Uniti si erano trasformati in Paese esportatore sfruttando i giacimenti scistosi, dai quali i combustibili fossili possono essere estratti solo con tecniche decisamente più onerose.

Per quanto riguarda il trasporto, costa molto meno movimentare un liquido come il petrolio ed i suoi derivati piuttosto che il gas naturale che, trasportato tal quale, richiede numerosi impianti di ricompressione lungo la linea e richiede il trasferimento di volumi molto più grandi a parità di energia. Mentre il petrolio può essere portato ovunque a costi relativamente contenuti, il gas naturale era confinato ad un mercato più localizzato prima dell’avvento delle tecniche di liquefazione. Le navi che trasportano il Gas Naturale Liquefatto possono avere una tangenza operativa mondiale. Il fattore critico restano gli impianti di liquefazione nei Paesi produttori e quelli di rigassificazione nei Paesi consumatori.

Dal punto di vista delle reti continentali, l’Europa può essere divisa in tre macroaree: le nazioni più occidentali – Francia, Regno Unito, Spagna e Portogallo – ricevono energia dall’Africa attraverso il Mediterraneo quando non sono relativamente autosufficienti, come la Francia che con il solo nucleare soddisfa l’80% della propria domanda interna. Le nazioni settentrionali ricevono energia dall’Atlantico e, soprattutto, dalla Russia. Le nazioni centro orientali, Italia compresa, dipendono per la loro autosufficienza dall’Est europeo e dall’Africa. Ciascuno di questi marcocanali presenta differenti problematiche legate alla stabilità politica dei Paesi in cui transitano gli idrocarburi.

L’Unione Europea non ha mai raggiunto una coerente e condivisa strategia per garantire la propria sicurezza energetica. Ciascuna nazione ha intessuto rapporti indipendenti con i produttori e, anche all’interno delle istituzioni europee, le dichiarazioni appaiono a volte contraddittorie, con messaggi che deviano dalle linee tecniche dichiarate dalla Commissione Europea.

Ora però, l’aumento delle tensioni fra Europa e Russia dovute alla crisi in Ucraina ha costretto Gazprom – il monopolista governativo del gas russo – ad abbandonare la strategia di controllo dei flussi di gas “dal pozzo al fornello”. Ora Gazprom sembra decisamente orientata a portare il gas solo fino ai confini dell’Europa. I singoli Stati europei dovranno preoccuparsi di portarlo fino al proprio mercato interno. Per questo, sta all’Europa la costruzione dei collegamenti mancanti fra i gasdotti ora in progetto e i singoli mercati nazionali. Ma anche la rete dei principali oleodotti e gasdotti esistenti o in costruzione sta subendo interessanti mutamenti.

Le due arterie principali che alimentano l’Europa rimangono per ora la Brotherhood combinata con la Urengoy-Pomary-Uzhgorod che dalla Russia asiatica portano 132 miliardi di m3/anno e la Soyuz, che alimenta l’Europa dal Kazakhstan con 26 miliardi di m3/anno. Entrambe passano per l’Ucraina e, proprio a causa delle forti tensioni, la Russia prevede di abbandonare tutti i gasdotti che transitano attraverso l’Ucraina entro il 2019.

Questo ha comportato anche l’abbandono del progetto South Stream. Secondo i piani guidati da Gazprom ed Eni, avrebbe dovuto trasportare 63 miliardi di m3/anno dalla Russia alla Bulgaria passando per l’Ucraina. Gli stessi volumi di gas dovrebbero ora transitare attraverso il Turkish Stream, una possibile partnership di Gazprom con Botas, la compagnia di stato turca. Al confine greco-turco questo dovrebbe poi collegarsi alla Trans Adriatic Pipeline per convogliare il gas in Europa. La crisi greca e, soprattutto, le tensioni russo-turche causate dalla guerra in Siria contro l’ISIS potrebbero impedire, o almeno ritardare, la firma dei contratti. Sembra, invece, certo il raddoppio del Nord Stream, sempre a guida Gazprom con vari partner europei, che dovrebbe raddoppiare la linea già operativa dal 2011 fra la Russia e la Germania lungo il Mar Baltico portandola a 110 miliardi di m3/anno.

Restano operative la Northern Lights e la Yamal-Europe Pipeline che portano 84 miliardi di m3/anno di gas russo all’Europa dell’Est, in particolare alla Polonia. Quest’ultima, sta però tentando di affrancarsi dal monopolio russo attrezzandosi per la costruzione di rigassificatori LNG sul Baltico. Inoltre, mentre il ramo settentrionale arriva fino a Berlino, il ramo meridionale raggiunge ora Vienna attraversando l’Ungheria e – ancora una volta – l’Ucraina.

Il gasdotto Nabucco, che doveva portare gas per 31 miliardi di m3/anno dal Caucaso all’Austria attraverso la Turchia è stato accantonato in favore della Trans Adriatic Pipeline (TAP) che passando dalla Turchia, alla Grecia e all’Albania dovrebbe approdare in Italia in provincia di Lecce con 10 miliardi di m3 di gas all’anno. I lavori sono stati autorizzati dal Ministro Federica Guidi il 20 maggio 2015 e dovrebbero iniziare entro un anno dalla firma per concludersi entro il 2020; sempre che le proteste dei comitati per il no al gasdotto non riescano a bloccarlo…

Fra le grandi condotte si trova la Blue Stream (partnership Gazprom, Botas, Eni) che alimenta con 16 miliardi di m3/anno la Turchia dal Mar Nero e che sta venendo ampliata ad una portata di 19 miliardi di m3/anno. Infine, la Gas-West (Botas ed altri) che, dai tempi dell’URSS alimenta con 16 miliardi di m3/anno la Turchia passando, però, ancora una volta per Ucraina, Bulgaria e Romania.

Ora, come ha recentemente ricordato il Presidente Prodi, è sul Nord Stream che si gioca una delle più importanti partite per il futuro dell’Europa. All’evidente strategia russa di affrancamento dall’Ucraina, si unisce il desiderio tedesco di diventare il principale punto di arrivo dell’energia e quindi il principale distributore europeo. Per questo il progetto da oltre dieci miliardi di Euro vede un totale accordo dell’intera coalizione di governo. Coalizione che, contemporaneamente, ha però recentemente ottenuto il prolungamento delle sanzioni contro la Russia stessa.

L’Italia acquista all’estero oltre tre quarti del proprio fabbisogno energetico e, fra i grandi Paesi europei, risulta quello più dipendente dalle importazioni. E’ paradossale che proprio il nostro Paese sia al contempo al primo posto per riserve di petrolio in Europa dopo i grandi produttori del Mare del Nord (Norvegia e Regno Unito). Nel gas si trova in quarta posizione per riserve e solo in sesta per produzione. Queste sono risorse non sfruttate, unicamente come conseguenza della decisione di non utilizzarle.

Nonostante l’attività di esplorazione delle nuove riserve sia ormai bloccata da un decennio, con un numero di perforazioni inferiori a un decimo di quelle del dopoguerra, l’Italia potrebbe – sulla base dei progetti già individuati – almeno raddoppiare la sua produzione di idrocarburi a circa 22 milioni di tonnellate equivalenti petrolio entro il 2020. Solo con questo significherebbe alleggerire la nostra bilancia dei pagamenti di circa 5 miliardi di Euro ed aumentare le entrate fiscali dello Stato di 2.5 miliardi ogni anno. Si attiverebbero inoltre investimenti per oltre 15 miliardi, dando lavoro alle decine di imprese, prima fra tutte l’Eni, che operano in ogni angolo del mondo ma sono impossibilitate a farlo nel proprio Paese.

Alcuni dei motivi che bloccano questo sviluppo sono la sicurezza e la protezione dell’ambiente, che devono rimanere per tutti una priorità. Ma la risposta ai rischi industriali non deve essere l’impedimento a fare, ma la capacità di governarli. Il nostro Paese ha, infatti, conoscenze, tecnologia, esperienza per riuscirvi ed ha una delle più severe legislazioni a tutela dell’ambiente. Se l’Italia non saprà cogliere l’occasione, ad esempio nei giacimenti già individuati in Adriatico, lo farà la Croazia, ovviamente trattenendo gli utili ma socializzando i rischi ecologici ad entrambe le sponde dell’Adriatico.

 

Tutte le sfide energetiche dell'Italia (non solo Nord Stream)

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