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E’ iniziato il 2016. Quale dovrebbe essere il primo obiettivo di un’Italia che ha ripreso lentamente a crescere? Quello di darsi una politica economica. È compito della Politica con la “P” maiuscola, in consultazione e, se possibile, concerto con quelle che un tempo venivano chiamate “le parti sociali” e con i “corpi intermedi” in senso lato.

Un Paese la cui produttività non cresce da circa vent’anni e che parso il 10% del Pil dalla crisi del 2008 ha disperatamente bisogno di una politica economica condivisa con la società civile e con obiettivi chiari e strumenti anche essi chiarissimi. Tanto più che le elezioni amministrative in grandi città, prima, ed il referendum sulla riforma istituzionale, poi, rischiano di ridurre il dibattito economico a polemiche con le autorità europee, o con alcuni Paesi dell’Unione, su temi astratti come una maggiore o minore dose di flessibilità.

Nei giorni in cui terminava il 2015, ho avuto di leggere un libro, uscito da poche settimane ma che per varie ragioni (segnatamente i canali distributivi) non si trova facilmente in libreria. È il Quaderno della Fondazione Giacomo Brodolini curato da Enzo Russo ed intitolato Programmazione, Cultura Economica e Metodo di Governo. I saggi (di cui due molto importanti di Enzo Russo e gli altri di Manin Carabba, Cristina Renzoni, Donatella Strangio, Antonella Focillo, Paolo Sodda e Franco Archibugi) ricostruiscono, con grande chiarezza ed un ottimo supporto documentario, il travaglio per costruire una politica economica negli anni delle varie forme di centro-sinistra. Matteo Renzi era a quell’epoca o non ancora nato o bambino. Tuttavia, è alla guida di una coalizione di centro-sinistra, anche se “aperta” ad altre forze parlamentari su singoli temi. Quindi, dovrebbero essere interessato a leggerlo durante le sue vacanze in Val d’Aosta.

Ci sono più di un’analogia con questi anni. In primo luogo, il contesto economico internazionale si stava sgretolando (terminava il sistema detto “di Bretton Woods” che lo aveva retto sin dalla fine della seconda guerra mondiale), all’interno nascevano contro un bipartitismo imperfetto (anche esso in atto sin dalla fine seconda guerra mondiale) nascevano forze antisistema che facevano ricorso anche al terrorismo, si acuivano la tensione sociali (a ragione di una crescita a cui le basse retribuzioni del fattore lavoro aveva dato un contributo non secondario). Allora, si uscì dall’impasse non tanto con l’”apertura a sinistra” quanto con un metodo di governo basato su obiettivi specifici e puntuali in cui a ciascun obiettivo corrispondeva (secondo la lezione di Jan Tinbergen) corrispondeva uno strumento anche esso specifico e puntuale. Gli obiettivi erano a breve e medio-lungo in termine (chi ricorda il Progetto Ottanta). La programmazione e la cultura economica diventeranno un metodo di governo che, nonostante difficoltà ed intoppi, consentì all’Italia di diventare più moderna e più giusta, e di superare le prime congiunture difficili.

Un Italia più moderna e più giusta dovrebbe essere la stella polare di un Governo che si considera di centro sinistra. Le condizioni sono oggi profondamente differenti, ma l’Italia pare non avere più una stella polare da quando, a ragione o a torto, l’obiettivo di base parve essere quello di fare parte del gruppo di testa degli Stati che si accingevano a formare l’unione monetaria. Una volta entrati nell’eurozona, i “dividendi” (reali o supposti) sono stata dissipati in poco tempo, si è aggravata la bassa produttività, sono aumentate le diseguaglianze, il disagio, la povertà.

Un Italia più moderna e più giusta richiede un metodo di governo, in cui le riforme istituzionali sono solo una piccola parte, da costruire con il dialogo con i corpi intermedi ed utilizzando al meglio lo spazio (non poco) che i trattati europei firmati dall’Italia lasciano in materia di politica di bilancio e (vastissimo ma non utilizzato) in materia di politica dei prezzi e dei redditi.

Le vere riforme non sono solo quelle istituzionali

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