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In Italia non c’è crescita sufficiente. Anzi, dopo aver perso terreno per un decennio attraverso l’erosione del pil, adesso abbiamo una crescita quasi piatta, cioè nulla. Ovviamente, in tutto questo decennio sfortunato, al capezzale del malato Italia si sono piegati economisti di ogni estrazione, livello e specie. Tutti con i loro stetoscopi elettronici e i loro modelli econometrici più o meno sofisticati ma anche tutti falliti. Shakerano il tasso d’interesse, l’indebitamento dello stato, la domanda aggregata, l’occupazione e l’inflazione in un caleidoscopio sempre più funambolico ma anche sempre più inconcludente.

Soprattutto sul piano dell’occupazione che dovrebbe essere l’obiettivo finale di una politica economica efficacemente realizzata. È evidente che il puzzle dello sviluppo è diventato globale e quindi complicatissimo. Un tempo si diceva che se gli Usa prendevano il raffreddore, l’Italia beccava la polmonite. Ma se il raffreddore lo prende anche la Cina? E se si sente male tutta l’America Latina? E se la Russia sta peggio di noi? E se accade ai paesi petroliferi nei quali, un tempo, sgorgavano petrolio e dollari e adesso sgorgano solo petrolio, visto il livello del prezzi dell’ex oro nero, che cosa ci capita?

Ma accanto a tutte queste variabili e a queste incognite, nell’Italia pantofolaia e pubblicoburocratica (non solo di sinistra) c’è una gran voglia di impedire di fare anche gli investimenti che sarebbero possibili e che, se realizzati, potrebbero creare posti di lavoro che le forze politiche ed ecologiche invece cercano di impedire.

Tanto per non andare a pescare esempi di questo azzoppamento politico degli investimenti da parte delle forze politico-sindacali nelle aree più difficile del nostro paese, come il Sud, ci limitiamo a ricordare qualche caso che si è verificato dove meno ce lo si aspetterebbe, cioè nell’area metropolitana milanese. Fu la sinistra meneghina, ad esempio, ad impedire a lungo l’ampliamento (attraverso anche un evidente sopralzo) del Teatro della Scala e la contemporanea edificazione del Teatro dell’Arcimboldi che consentì di portare avanti le stagioni anche nel periodo in cui la Scala non era agibile. Vennero fatti dei versi da gatti, con molte denunce alla magistratura penale e amministrativa, per impedire ad Albertini la realizzazione del progetto che oggi, anche urbanisticamente, è il più importante e significativo del dopoguerra nel centro storico di Milano.

La giunta Pisapia ha inoltre bloccato per oltre due anni (e ancora il cantiere non è partito) la realizzazione dell’imponente Campus dell’Università Bocconi, imponendo l’abbattimento di sei piani alla torre del collegio, riducendo quindi i posti disponibili per studenti e professori e tagliando inevitabilmente anche i posti del personale dedicato alle necessità degli ospiti. E imponendo (nella stagione del terrorismo!) che il campus sia aperto anche alla cittadinanza (che pure ha a disposizione, lì accanto, uno dei più vasti parchi milanesi), ha imposto il rifacimento del progetto da parte dell’architetto giapponese che lo aveva redatto alla perfezione.

Sempre la giunta Pisapia ha bloccato all’ultimo momento il piano di recupero delle aree ferroviarie dismesse (che aveva richiesto tre anni di trattative) e che avrebbero agito come imponente volano per l’edilizia convenzionata e popolare creando 22 mila posti di lavoro che invece, per il no del centrosinistra aiutato dal centrodestra, si sono volatilizzati nonostante gli alti lai per la crescente disoccupazione che, evidentemente, sono delle lamentazioni di maniera, prive di significato.

Così la Mapei (che è la società del presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi) e che ha la sua sede, dal 1937, a Peschiera Borromeo, non può realizzare il suo nuovo centro direzionale progettato dal famoso architetto svizzero Mario Botta perché incapperebbe nella rete del Parco Sud che nel frattempo è stato esteso oltre ogni ragionevolezza da amministrazioni comunali di ogni colore, incuranti dei costi economici e occupazionali del verde a tutti i costi.

Senza contare l’entusiasmo di larghi fronti politici e sindacali (Camusso in testa) nel tifare perché Expo non vedesse la luce e fallissero quindi anche gli investimenti già fatti. Basterebbe ricordare le resistenze alla realizzazione della Darsena e il successo nel bloccare, non un’autostrada, ma il collegamento via acqua della Darsena con il sito Expo che avrebbe creato un circuito idrico capace di non mandare a secco per lunghe stagioni i Navigli a Milano.

E che dire del mercato ortofrutticolo e ittico gestito dal Comune (che era il secondo in Europa) e che è stato lasciato in condizioni pietose da un paio di decenni per cui questa funzione primaria di Milano (quella di essere il ventre alimentare di almeno tutta l’Italia settentrionale) è venuta meno e l’ultimo presidente, sentendosi abbandonato da un amministrazione comunale assente su questo progetto strategico, si è recentemente dimesso, mentre Parigi realizzava la nuova sede avveniristica de les Halles.

Non sono raccontabili, tanto sono assurde, le vicissitudini dell’autostrada Brescia-Milano (Bre-Be-Mi) e della tangenziale Sud Milano che da Est arriva a Melegnano, che fu osteggiata con ogni mezzo e che, adesso che è stata realizzata, ha tolto il traffico tangenziale milanese dalla stretta che lo soffocava. Quest’opera che non si doveva fare assolutamente è stata realizzata solo perché un uomo d’acciaio come Francesco Bettoni, il presidente della società, non ha voluto mollare l’osso e, battendosi contro venti e maree, ha voluto arrivare alla fine. Se non ci fosse stato lui, l’autostrada e soprattutto la preziosissima tangenziale Est-Ovest di Milano sarebbero oggi opere incompiute.

La conclusione è che se gli enti locali fossero ispirati (come dovrebbero) dalla motivazione di non ostacolare la creazione di nuovi posti di lavoro, molti posti potrebbero essere creati e il paese potrebbe beneficiare di opere infrastrutturali anche private di cui ha un assoluto bisogno. Sembra una contraddizione ma è così.

(Da Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

Quando i Comuni ostacolano il lavoro. Il caso Milano

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