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Mancano una manciata di giorni al secondo anniversario dell’ormai celeberrima sentenza con la quale nel maggio del 2014 la Corte di Giustizia dell’Unione europea pronunciandosi nell’altrettanto nota vicenda di Mario Costeja Gonzalez – l’uomo che cercando l’oblio online ha trovato la fama sempiterna – ha stabilito che i gestori dei motori di ricerca devono disindicizzare, dietro semplice richiesta degli interessati, qualsiasi contenuto pubblicato online in relazione al quale l’interesse di chi chiede l’oblio, appaia loro prevalente rispetto al diritto del pubblico di sapere.

E, da allora ad oggi, sembra che Google – il più diffuso dei motori di ricerca – abbia fatto i suoi compiti. Bene – forse persino troppo – per alcuni, poco e meno del necessario secondo altri.

Ma, al netto dei giudizi inesorabilmente diversi e soggettivi, i numeri – resi noti dalla stessa società californiana attraverso le pagine del suo transparency report – raccontano che, negli ultimi due anni sono state ricevute e processate oltre 421 mila richieste di oblio relative a quasi 1,5 milioni di indirizzi web e che nel 42% dei casi queste richieste hanno trovato accoglimento.

Più o meno 500 mila pagine web, quindi, negli ultimi due anni sono state sottratte alla memoria collettiva o, almeno, “nascoste” tra le maglie della Rete, al riparo degli spider del motore di ricerca che, oggi, rappresenta la principale porta di accesso ai contenuti disponibili online.

Difficilmente, quindi, i contenuti raccontati in quelle pagine entreranno in futuro – anche qualora lo meritassero – a far parte della storia.
E la sottrazione di quelle informazioni dalla memoria collettiva è figlia esclusivamente di un dialogo tutto privato tra i protagonisti – normalmente in negativo – delle storie raccontate nelle pagine in questione ed una delle più grandi corporation di tutti tempi.

È giusto così? Dopo un’esperienza lunga due anni, forse è arrivato il momento di chiederselo.

Non ha dubbi che questa sia la strada da percorrere senza ripensamenti il Garante per la privacy francese (la CNIL) che, anzi, nelle scorse settimane ha inflitto a Google una sanzione da 100 mila euro perché, a suo dire, starebbe disindicizzando troppo poco, ovvero continuerebbe a lasciare accessibili i contenuti de-indicizzati in Europa agli utenti che si collegano dal resto del mondo.

L’ambizione del garante francese – per la verità, sin dall’inizio della vicenda in compagnia della più parte dei suoi colleghi europei – è che quando Google dispone la disindicizzazione di un contenuto quel contenuto debba diventare inaccessibile, ovviamente attraverso il motore di ricerca, in tutto il mondo perché solo così la privacy dei cittadini europei potrebbe dirsi, per davvero, al riparo da sguardi indiscreti.

Difficile, naturalmente, far digerire ad una corporation americana che l’accesso all’informazione ed alla storia, anche dal suolo statunitense possa essere governato dalle leggi europee e da una Sentenza dei Giudici del Lussemburgo.

E quindi, almeno per ora, la storia del mondo è geopardizzata: più ampia quella che si può sfogliare navigando in Rete attraverso Google in certi Paesi, ridotta quella accessibile dal vecchio continente.

Come dire che per raccontare la storia come era prima che la scure dell’oblio ci si abbattesse sopra, basta prendere un aereo o, se si è pigri, collegarsi a Google attraverso un proxy server extra europeo, restando seduti alla propria scrivania.

Guai, però, a negare che ci sono ipotesi – e, probabilmente, non sono poche – nelle quali storia ed informazione non c’entrano nulla e la persistenza nel presente di informazioni del passato può davvero rendere difficile l’esistenza di una persona.
Si tratta, per la verità, nella più parte dei casi di dati ed informazioni che non avrebbero mai dovuto finire online perché prive di qualsivoglia interesse per il pubblico.

Il punto è che, forse, sarebbe stato auspicabile – e lo sarebbe ancora – che l’arbitro dell’oblio o, a seconda dei punti di vista, della memoria collettiva fosse stata un’Autorità giudiziaria o, almeno, un’autorità amministrativa indipendente come le Authority per la privacy europee.

Ad ogni disindicizzazione disposta da Google, infatti, c’è il rischio che un frammento di storia sia relegata all’oblio collettivo e nessuno, oggi, ha il diritto di richiederne il ripristino sostenendo, magari in un Tribunale, che Google ha sbagliato a disindicizzare perché Big G, ben potrebbe rispondere che non ha mai assunto, nei confronti di chicchessia, alcun obbligo di indicizzare la storia del mondo.

All’orizzonte, nel nuovo Regolamento europeo in materia di privacy, prossimo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità, ci sono una manciata di caratteri che sebbene non appaiono scritti in maniera tale da consentire di dipanare una questione tanto complessa, potrebbero, almeno, consentire di riaprire un dibattito che altrimenti si rischia di considerare già chiuso e di meglio bilanciare – perché questo è il senso di quelle norme – il difficile rapporto tra diritto alla privacy del singolo e diritto alla storia del resto del mondo.

Chissà cosa accadrebbe se, domani, tanto per agganciare la riflessione ad un fatto di cronaca, il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan – magari frattanto dismessi i panni dell’uomo politico – chiedesse a Google di disindicizzare la recente vicenda che lo vede trascinare a processo, in Germania, un comico tedesco reo di averlo trasformato nel protagonista di un suo pungente sketch satirico.

Google risponderebbe che son fatti relativi ad un periodo in cui era un personaggio pubblico e devono restare online per sempre o gli accorderebbe l’oblio?

Oblio online, due anni dopo. Più rischi o benefici da Google?

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