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La scorsa settimana in Siria, nei pressi di Homs, è stato ucciso uno dei complici degli attacchi, rivendicati dallo Stato Islamico, che il 12 novembre a Beirut hanno ucciso 44 persone nell’area di Burj el Barajneh, abitata dagli sciiti. Per alcuni osservatori gli attentati in Libano, come quelli di Parigi, sono l’esempio di uno spostamento tattico del Califfato, in risposta ai problemi incontrati nell’espansione territoriale in Siria ed Iraq. Sahar Atrache, analista dell’International Crisis Group, non condivide del tutto l’analisi.

L’ANALISI DI SAHAR ATRACHE

“Gli ostacoli in Siria ed Iraq potrebbero avere spinto l’organizzazione ad aumentare i propri attacchi su altri fronti, ma comunque né la Francia né il Libano sono un teatro di azione nuovo per il gruppo estremista. Le bombe del 12 novembre si ricollegano ad una serie di attentati suicidi contro Hezbollah compiuti a Dahiyeh (un quartiere di Beirut, roccaforte sciita, ndr) tra la metà del 2013 e il febbraio del 2014. Gli attacchi furono rivendicati da vari gruppi jihadisti sunniti, tra cui lo Stato Islamico, Jabhat al-Nusra e le Brigate Abdullah Azzam, come vendetta per l’intervento militare di Hezbollah a sostegno del regime siriano”.

LO SCENARIO IMPROBABILE

“Tuttavia”, prosegue Sahar, “è improbabile che questi ultimi attentati abbiano un impatto tale da portare alla guerra civile tra sunniti e sciiti, cambiando gli obiettivi e le strategie dei principali attori politici libanesi. Sebbene sunniti e sciiti si siano sempre più radicalizzati in questi anni, i maggiori partiti, Hezbollah e il Future Movement (quello guidato da Saad Hariri, ndr) hanno entrambi interesse a tenere a bada gli estremisti. Questo spiega, in parte, il cosiddetto ‘piano per la sicurezza’ messo in atto a partire dall’aprile del 2014. Un piano che ha aiutato a fare diminuire, in maniera significativa, il numero degli attacchi, senza ovviamente eliminare del tutto la minaccia degli estremisti”.

CIFRE VARIABILI

Le cifre sui militanti effettivi del Califfato sono molto variabili, tutte le stime difettano di precisione e il Libano non fa eccezione. Ma l’analista dell’ICG sostiene che, in ogni caso, non si tratta di grandi numeri: “Lo Stato Islamico non gode di largo sostegno presso la maggioranza dei sunniti, molti dei quali, al contrario, vedono nel Califfato una vera e propria minaccia. D’altra parte, l’IS ha puntato molto su quel senso di persecuzione e di ingiustizia che è diffuso tra i sunniti, per cui non ci sono dubbi che abbia dei simpatizzanti all’interno del Paese. Il numero di persone che si è unito al Califfato, o che ha proclamato la propria adesione al gruppo, è comunque rimasto limitato. Lo Stato Islamico può infliggere colpi al Libano ed alla sua popolazione, ma sinora non è riuscito a fare breccia nel Paese. Nell’agosto del 2015 l’Isis, Jabhat al-Nusra ed altre piccole formazioni armate hanno tentato di conquistare Arsal, una città nel Nord-Est, ma i loro sforzi sono stati disinnescati dall’esercito libanese”.

LA STRATEGIA CHE MANCA

La situazione politica resta difficile, da un anno e mezzo il Parlamento cerca, invano, di eleggere il presidente della Repubblica, ed a complicare ulteriormente gli equilibri interni contribuisce l’onere dei rifugiati siriani: “I partiti politici si sono divisi profondamente su come affrontare la crisi dei rifugiati e non sono riusciti a concordare una strategia comune, lasciando da sole le Nazioni Unite, le organizzazioni non governative e le comunità di accoglienza a risolvere la questione. Oggi più di un milione di rifugiati sono sparsi per il Paese, in più di 1500 località. Molti di loro vivono in condizione disperate. Spesso li si incolpa di essere la causa delle difficoltà economiche e della mancanza dei servizi di base, e sono percepiti come una minaccia crescente per la sicurezza. Questo ha portato a misure molto rigide in materia di ordine pubblico e ad una politica draconiana sui visti, col risultato di aumentare ulteriormente il problema”.

L’IMMOBILISMO LIBANESE

Recentemente sembrava che l’immobilismo libanese potesse essere scosso da un movimento di protesta, apartitico, guidato in prevalenza da giovani e nato dalle difficoltà del governo a gestire la raccolta dei rifiuti. Un’illusione di breve durata, dice Atrache: “Purtroppo l’impatto di questo movimento, guidato da una vasta gamma di attivisti, organizzazioni non governative, ex politici, non è stato forte. Hanno cercato di creare un’agenda chiara e realistica, ma i loro sforzi sono stati vanificati dalle divisioni tra i suoi leader e dai tentativi della classe dirigente di indebolirli. La loro capacità di tradurre le domande di natura economica e sociale, tralasciando quelle politiche, in cambiamenti concreti, rimane profondamente incerta. Però, piuttosto che intraprendere passi concreti per migliorare, anche se di poco, le sue performance, l’establishment sembra scommettere sul tempo, sulla resilienza del sistema, sulla debolezza e sulla confusione all’interno dei movimenti di protesta, in modo tale da portare il movimento stesso ad affievolirsi. Persino la crisi dei rifiuti, che ha scatenato le contestazioni, non è stata risolta, e pile di spazzatura continuano a riempire le strade del Paese”.

UN SISTEMA BLOCCATO

Quello che descrive Sahar è un sistema bloccato, che, malgrado non funzioni, pensa unicamente a mantenere se stesso. Un apparato fondato su sottili equilibri tra le varie comunità, che, tanto più nell’attuale contesto regionale, è piuttosto difficile riformare: “Ora, com’era in passato e come sarà in futuro, non è realistico aspettarsi dei profondi cambiamenti nel sistema politico libanese, tantomeno la costruzione di una democrazia non-settaria. Il sistema è molto resiliente al cambiamento e la classe dirigente trova sempre il modo di prevenire il punto di rottura. L’instabilità regionale ha avuto un effetto dissuasivo, certo. Ma la società è molto divisa e polarizzata e, soprattutto, la maggioranza dei libanesi non ha alternative, se non quella di affidarsi ai partiti di appartenenza, per soddisfare i propri bisogni. Oggi persino le richieste minime, come quella di avere una migliore governance, o di arrestare l’erosione delle istituzioni statali, sembrano troppo ottimistiche”.

Ecco perché Isis punta anche al Libano

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