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La retorica del presidente russo Vladimir Putin sul caso del jet russo abbattuto dalla Turchia non si è arrestata nemmeno dopo la richiesta di de-escalation avanzata nell’incontro privato a margine della conferenza sul clima di Parigi, avuto con Barack Obama, che aveva evocato il “nemico comune” Isis come buon motivo per far tornare la quiete tra i due paesi. E dunque, cosa potrà fermarla?

Non perdoneremo. Durante il discorso alla Nazione, tenuto ieri nella sala di San Giorgio del Cremlino, ha usato parole «cingolate» contro i turchi: «Non dimenticheremo l’abbattimento del jet», «Si pentiranno di quello che hanno fatto». “Se qualcuno pensa che le reazioni della Russia saranno limitate alle sanzioni commerciali, si sbaglia di grosso”, ha aggiunto Putin, che intanto ha sospeso le trattative dietro alla costruzione del Turkish Stream, imponente gasdotto con cui la Russia avrebbe dovuto raggiungere la Turchia con ampie quantità di gas naturale, in grado di generare surplus da vendere al resto d’Europa (attraverso altre condotte).

LA LEVA DIPLOMATICA DIETRO ALLA CRISI

Sempre ieri, il vice ministro della Difesa russo, Anatoly Antonov, aveva mostrato in una conferenza stampa corredata da mappe e filmati (ripresi in un maxi schermo posto alle sue spalle come in un’aula universitaria), quelle che sarebbero state le prove dei traffici di petrolio in entrata in Turchia dalle aree amministrate dal Califfato. Greggio estratto dai campi pozzi controllati dai baghdadisti e poi rivenduto in Turchia. Traffici noti, sempre esistiti fin da prima dell’Isis, quelli del contrabbando di petrolio dalla Siria alla Turchia, ma ora sono diventati la leva diplomatica usata da Putin per sollevare le accuse di ambiguità all’omologo Recep Tayyp Erdogan. Ambiguità, per altro, spesso rinfacciata anche dagli alleati occidentali dei turchi, che hanno chiesto in più riprese ad Ankara di gestire meglio la questione-Califfato, cominciando dal controllo dei confini. Due giorni fa il Financial Times scriveva che nell’altro incontro avuto da Obama a Parigi, quello con Erdogan, l’americano aveva chiesto al turco di chiudere i propri confini con la Siria, perché Washington li considera un agevole crocevia di armi e uomini diretti al Califfato.

Le note vie dei traffici. Il petrolio viene trasportato nel territorio turco attraverso tubature improvvisate (se n’era parlato parecchio lo scorso anno), barili agganciati a zattere di fortuna che solcano i corsi d’acqua, camion cisterna. Tutto alla luce del giorno: un’attività che avviene da diversi anni, che permette al greggio di arrivare fino al Kurdistan o addirittura pare fino ad Israele (come aveva scritto il sito londinese Al Araby, specializzato sulle questioni del mondo arabo). Il commercio coinvolge intere comunità delle città di confine, sia in Siria che in Turchia: impossibile che le autorità ne siano all’oscuro, più probabile che chiudano un occhio, sotto mazzette magari, davanti ad un’attività economica che in certe aree diventa socialmente importante. Mentre i signori del contrabbando si arricchiscono.

LE ACCUSE ALLA FAMIGLIA DI ERDOGAN

Il governo russo ha direttamente accusato membri della famiglia di Erdogan di essere collusi con questo sistema illegale. Si parla del genero del presidente turco e soprattutto del figlio, Bilal. Trentaseienne imprenditore con esperienze di studio negli Stati Uniti, Bilal è proprietario, socio, a volte oscuro, di diverse aziende: alcune operano nel settore energetico, e su queste i russi hanno puntato l’obiettivo, perché secondo l’intelligence del Cremlino sfrutterebbero l’oro nero dell’Isis commerciandolo poi sul mercato asiatico. Non ci sono prove di queste attività, se non le parole dei militari di Mosca, che accusano i membri della famiglia di Erdogan di essere in affari con il Califfo. Bilal è già finito in mezzo a questioni del genere: tempo fa una sua foto fece il giro dei social network perché l’utente che l’aveva postata commentava che le due persone riprese insieme al figlio del sultano di Ankara, erano due leader turchi dello Stato islamico. Altri commentavano che erano due semplici, ma noti, kebabbari: alcuni dicevano che in realtà dietro alla vendita dello street food più popolare della Turchia, si nascondeva una cellula di reclutamento dei baghdadisti. Anche in questo caso, informazioni che si riportano senza conferme.

Le controprove. Erdogan ha definito «immorali» le accuse russe, e ha annunciato a sua volta di avere lui delle prove che dimostrano il coinvolgimento di Mosca in quei traffici illegali di petrolio, citando un nome noto del settore, George Haswani. Haswani, siriano con passaporto russo, è da tempo finito sotto sanzioni occidentali, perché considerato il tramite nelle ben note trattative che coinvolgono il governo siriano e il Califfato, dove il primo è costretto a comprare il petrolio estratto nei campi di Deir Ezzor sotto il controllo dell’Isis, per mantenere attive le proprie strutture statali. Il nome di Haswani, citato da Erdogan senza aggiungere troppi dettagli, è un boomerang di propaganda per la Russia, che accusa la Turchia di avere link con il petrolio del Califfato, con le mani sporche di greggio. Inoltre è utile per ricordare un aspetto: è dimostrato che le produzioni di greggio dei “pozzi del Califfato” raggiungono un mercato interno, cioè quello siriano e quello iracheno, e soltanto un’aliquota di queste viene destinata alle “esportazioni di contrabbando”. Aliquota che non è per niente sufficiente al mantenimento delle richieste statali turche, per essere chiari, ma che tuttavia permette a quei soggetti che operano nel settore di tenere in piedi una struttura piuttosto proficua, sebbene anche questa basata più che altro su giri locali.

IL QATAR

Da ieri circola anche la notizia su un possibile accordo tra Turchia e Qatar in materia energetica. Reuters ha scritto che Ankara vorrebbe ridurre del 25 per cento le importazioni dalla Russia del proprio fabbisogno annuo di gas naturale. Alcuni siti scrivono che sarebbe in costruzione un affare con Doha, ad occuparsi della pratica Erdogan in persona: accordi stretti durante la visita ufficiale di questi giorni nell’emirato del Golfo. Il gas che arriverebbe dal Qatar sarebbe trasportato attraverso navi in forma liquefatta, per poi essere trasformato nei rigassificatori di Marmara Ereglisi e Aliaga, anche se è probabile che i due impianti siano sottodimensionati per le esigenze richieste. Si tratta di voci non ancora ufficializzate, che arrivano a coda di un incontro in cui i due Paesi hanno deciso di eliminare l’obbligo dei visti sui passaporto per i rispettivi viaggiatori. Aperture proficue per Ankara, meno per Mosca, che ha nella Turchia il suo principale cliente di gas naturale, con una dipendenza che sfiora il 60 per cento del fabbisogno: su questo Putin dovrà fare letteralmente i conti. Saranno questi a fermare la retorica di Putin?

Il proxy siriano. Ancora una volta, la guerra siriana si dimostra come un polarizzatore: Qatar e Turchia vogliono una Siria senza Bashar el Assad e ciò che lui rappresenta, mentre la Russia è intervenuta al fianco di Damasco non tanto per difendere direttamente il rais, quanto per mantenere in piedi lo status quo del regime (garanzia storica di alleanza, fin dai tempi del presidente Hafez, padre di Bashar). Dietro all’eventuale accordo sul gas tra turchi e qatarioti, sembra esserci più di un mero affare commerciale.

Le accuse di Putin, il figlio di Erdogan e il Qatar

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