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Se ancora mancassero prove probanti del riscaldamento climatico del globo, causato dall’eccesso di emissioni di gas a effetto serra (Ghg) e del fallimento della gestione del sistema idrico nazionale, questa estate rovente da record e la contemporanea penuria acuta di acqua nel Mezzogiorno e in altre aree ne offrirebbero prove inconfutabili. Contrariamente a quanto taluni potrebbero pensare, i due fenomeni sono collegati da una catena di condizioni che dal primo conduce al secondo attraverso passaggi in cui le scelte istituzionali hanno un peso determinante.

Nonostante le politiche di contenimento in Europa e in America, le emissioni di gas serra (principalmente anidride carbonica, metano e protossido di azoto) sono in aumento seppur a ritmi più lenti del passato. L’anno scorso hanno raggiunto il picco dalla metà dello scorso secolo e sono aumentate del 60% rispetto al 1990. A inquinare maggiormente sono la produzione di energia da fonti fossili, i trasporti, i processi industriali e la ricerca di combustibili. Tutti i Paesi, sviluppati e meno sviluppati, contribuiscono a creare la cappa di gas che avvolge il globo, con in testa la Cina, seguita nell’ordine da Stati Uniti, India ed Europa a 27. I progressi realizzati da europei ed americani, benché significativi, non hanno impedito l’innalzamento delle emissioni globalmente, perché altre aree geografiche li hanno più che compensati. Il problema è globale e non si risolve se tutti i Paesi non danno un apporto importante al contenimento.

L’Italia ha dato il suo contributo riuscendo a piegare verso il basso l’andamento tendenziale delle sue emissioni ma queste, dopo la caduta del 2020, anno del lockdown, sono ritornate sul livello del 2019 e sembrano essersi stabilizzate su quella posizione nel biennio 2021-2022. Proseguendo nei prossimi anni sulla traiettoria tracciata nel passato decennio, non sembra nemmeno possibile raggiungere gli ambiziosi obiettivi europei per il 2030, come si deduce dalle stime dell’Ispra. Stando alle politiche attuali, rimarrebbe un considerevole divario tra i livelli raggiungibili e gli obiettivi prefissati. Sono pertanto necessari notevoli sforzi aggiuntivi sul piano sia degli investimenti in tecnologie meno inquinanti, sia delle norme dirette ad accelerare la transizione verso il verde. Sul versante degli investimenti, quanto finanziato nel Pnrr con fondi pubblici copre meno di un quarto del fabbisogno nazionale, mentre un impegno di maggior consistenza non appare sostenibile per le finanze pubbliche, indipendentemente dall’obbligo di riequilibrio finanziario posto dal nuovo Patto di Stabilità.

L’intervento del capitale privato è pertanto indispensabile, con notevoli flussi di risorse che, peraltro, non avvengono spontaneamente, bensì vanno sollecitati con incentivi adeguati e con il ricorso a norme che fissino standard più stringenti di emissioni. Se il margine per incentivi pubblici risulta ristretto, occorre fare leva sull’irrigidimento delle norme mediante nuovi vincoli. Questa strada, tuttavia, non appare facilmente percorribile per i costi che comporta in termini di consenso sociale. Il Governo, infatti, si sta adoperando con la Commissione europea per differire l’entrata in vigore dei nuovi standard. Ad esempio, insieme alla Germania e alla Francia, chiede che sia rinviato a oltre il 2035 il divieto di vendere auto a motore termico nell’Ue. È un esempio di come le scelte a livello istituzionale confliggono con l’inquietante evoluzione delle condizioni climatiche sul pianeta. Si ripropone, quindi, nel settore dell’auto, il dilemma che si è visto per l’acciaieria di Taranto, ossia come conciliare la lotta all’inquinamento con la prosecuzione delle attività produttive in stabilimenti industriali su cui si sono investite ingenti risorse e che sono prigionieri di tecnologie ad elevate emissioni. È in gioco la tutela di comparti industriali che per decenni sono punti di forza del Paese e in cui sono occupati numerose forze di lavoro. Ma è altrettanto cruciale concorrere a frenare conseguenze ben più gravi delle attuali emissioni.

L’accumulo per decenni di gas Ghg ha prodotto un innalzamento delle temperature in tutto il pianeta e, di conseguenza, un cambiamento climatico che attualmente non appare arrestabile in tempi brevi. La Nasa stima che la temperatura media del pianeta sia salita di 1,36 gradi Celsius rispetto alla media degli anni di fine Ottocento e che l’anno scorso abbia raggiunto il livello record da quando è iniziata la sua registrazione, l’anno 1880. Si direbbe un’inezia di aumento ma gli effetti sono già devastanti: maggior frequenza di eventi meteorologici estremi, estati torride e inverni insolitamente rigidi, avanzante desertificazione di zone fertili, diminuzione delle piogge, liquefazione dei ghiacciai e innalzamento dei mari. La siccità di cui stanno soffrendo ampi territori del Paese e i gravi danni all’agricoltura e alle altre attività produttive fanno parte di questo quadro.

Non si tratta di un imprevisto, perché da almeno due decenni in Italia si prevedeva questo peggioramento e si chiedevano interventi atti a minimizzare le conseguenze più nefaste della siccità. Era necessario predisporre già a quel tempo un piano nazionale di interventi massicci e decisivi, nonché assicurarne un’efficace attuazione e il monitoraggio per ottenere la migliore gestione delle risorse idriche, la loro raccolta, la loro distribuzione su tutto il territorio e il loro riuso. In particolare, nell’arco di un quarto di secolo si sarebbero dovute realizzare infrastrutture idonee a portare acqua a sufficienza dal Nord al Sud e nelle Isole, dove le carenze sono più acute e si sarebbe dovuto investire su una tempestiva manutenzione di condotte, invasi, bacini e dighe. Il quadro attuale di deficit idrico con conseguenti disseccamento delle colture e sospensione delle attività produttive nelle zone più colpite dal caldo torrido dimostra che gli investimenti, le opere e la gestione effettuati finora non sono all’altezza della sfida climatica attuale. L’assetto istituzionale del sistema di governance delle risorse idriche ha la sua parte di responsabilità se ampie aree del Paese sono quasi a secco.

Le risorse idriche al pari delle infrastrutture sono di proprietà dello Stato, ma la gestione dei servizi idrici è stata affidata ai Comuni, che devono aggregarsi in Ambiti territoriali ottimizzati (Ato). Questi possono gestirli direttamente assegnandoli in house ad aziende pubbliche, oppure darli in concessione mediante gare a imprese private o in partenariato pubblico-privato (opzione oggi terminata). Gli investimenti nelle reti, come nella manutenzione, sono necessari per coprire il fabbisogno di ogni parte del Paese e sono decisi dalle autorità delle Ato e realizzati dal gestore. Il loro finanziamento avviene in parte minore con fondi pubblici e per il resto con fondi dei gestori (4 miliardi circa nel 2023) raccolti sul mercato dei capitali e ripagati con gli introiti delle tariffe a carico degli utenti.

Questo sistema di governance si è dimostrato inadeguato sotto diversi profili. È troppo frammentato tra autorità sul territorio per rispondere a esigenze nazionali. Molte gestioni comunali sono svolte “in economia” (12 % del totale) con quote molto elevate nel Meridione, applicano livelli tariffari minimi e non sono in grado né di sostenere, né di pianificare, né di realizzare i progetti d’investimento necessari. La frammentazione delle regole riguarda anche il tipo di opere, in quanto per quelle di ampia portata più autorità devono concorrere alla loro approvazione con appesantimenti burocratici.

I risultati, alla luce dei rapporti dell’Istat e dell’autorità di settore, l’Arera, si possono riassumere in pochi dati: la quantità di acqua potabile erogata per abitante è scesa nel quinquennio 2018-2022, le perdite idriche sono elevate (42,4% dell’immesso) e in lieve aumento, le discontinuità del servizio di erogazione colpiscono il 9% delle famiglie e il 71% circa della popolazione over 14 è preoccupata per il cambiamento climatico. Questi dati medi nascondono notevoli disparità tra Regioni, con i valori peggiori nel Mezzogiorno e in parte dell’Italia centrale. Complessivamente, le tariffe per il servizio sono nettamente più basse di quelle dei maggiori Paesi europei e analogamente gli investimenti, a fronte di fabbisogni ben più importanti.

Indubbiamente la vetustà e scarsa manutenzione degli impianti spiega parte delle difficoltà dell’approvvigionamento nel Mezzogiorno, ma non mancano dighe e bacini abbandonati, o non completati, o inutilizzati proprio in zone a maggior criticità. Carente il riuso delle acque reflue, che peraltro sono per il 93% oggetto di depurazione: mentre il potenziale di riutilizzo di quelle più trattate raggiunge il 23% dell’immesso, solo il 4% è impiegato in agricoltura. Molto resta da fare nella gestione integrata dell’intero ciclo dell’acqua per sopperire alle necessità specialmente in periodi di siccità divenuti più frequenti del passato.

Non bisogna nemmeno sottacere che importanti miglioramenti sono stati apportati alla gestione del sistema idrico nell’ultimo quinquennio e altri ancora sono necessari particolarmente nella gestione delle acque piovane e nel riuso di quelle depurate. In questa prospettiva il nuovo piano idrico nazionale (Pniissi), appena varato, tende a semplificare la governance di sistema e interviene con nuovi finanziamenti per 12 miliardi su 418 interventi per invasi, derivazioni, adduzioni e acquedotti, senza menzione delle opere per il riuso degli effluenti depurati.

Il nodo più critico, tuttavia, rimane nella governance, che mantiene una significativa frammentazione nella programmazione degli interventi, e nella filiera istituzionale di attuazione, la cui attività non è soggetta a stringenti verifiche con tempestivi commissariamenti nei casi di inefficienze, né obbligata alla transizione verso un approccio industriale nella gestione in un contesto competitivo. Trattandosi di risorse idriche, vitali per la popolazione e per la sua economia, una governance centralizzata, con una visione organica dei fabbisogni nazionali e un programma coerente di interventi, si presenta come la soluzione più appropriata di fronte alla sfida climatica. Fino a quando non si realizzerà, il Paese è destinato a inseguire le emergenze piuttosto che a prepararsi per tempo a mitigarle.

Emergenza idrica, l’Italia ha bisogno di una governance centralizzata. L'analisi di Zecchini

Una governance centralizzata, con una visione organica dei fabbisogni nazionali e un programma coerente di interventi, si presenta come la soluzione più appropriata di fronte alla sfida climatica. Fino a quando non si realizzerà, il Paese è destinato a inseguire le emergenze piuttosto che a prepararsi per tempo a mitigarle. L’analisi di Salvatore Zecchini

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