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Ferrari da urlo, Poste sottotono. Le ultime Ipo a Piazza Affari hanno avuto chiari e scuri (mentre oggi Ibl ha annunciato il ritiro dell’Offerta), l’attenzione di chi vuole tentare l’avventura investendo in nuove azioni, è sempre più alta. Soprattutto perché si arriva da anni di magra in cui le società hanno avuto paura a quotarsi e hanno preferito rimandare i progetti di raccolta del capitale a tempi migliori. I piccoli risparmiatori, ma anche i fondi istituzionali, sono sempre a caccia di nuove occasioni. Nuovo però non sempre è sinonimo di buono.

IPO DISASTROSE MADE IN USA
“Un gran numero di aziende si sono quotate – spiegano dal team di Moneyfarm – nonostante fossero state valutate come non redditizie, con modelli di business palesemente insostenibili, e guidate da consigli di amministrazione dalle dubbie competenze. Soprattutto all’inizio degli anni 2000, con l’affacciarsi sul mercato di compagnie legate al settore Tecnologico e di Internet, abbiamo assistito a una serie di società che promettevano faville, ma che sono uscite decisamente con le ossa rotte”. Alcune davvero clamorose. Come Webvan, che si proponeva alla fine degli anni Novanta come antesignano della spesa online: “Nel 1999 raccolse 365 milioni di dollari in Ipo con un prezzo per azione di 34 dollari che però dopo una settimana iniziai a crollare spingendosi fino a 6 euro”, raccontano gli analisti di Moneyfarm. Simile il destino di TheGlobe.com che negli anni ‘90 anticipò Facebook nel settore dei social media: il 13 novembre 1998, il giorno della sua quotazione, la società fece storia registrando il più altro rialzo in una giornata: +606% e raggiunse una capitalizzazione di mercato di 842 milioni. Dopo due anni il suo valore si era azzerato. Nel 1999 si quotavano anche Pets.com e Toys, nel settore dei giocattoli: la prima azzerata nove mesi dopo la quotazione, la seconda dopo due anni, affossata da Amazon e Wal-Mart, e dopo un primo giorno di Ipo in cui il valore del titolo era passato da 20 a 85 dollari.

NON SOLO BOLLE
Era gli anni della bolla delle dot.com e dunque i casi sopracitati sono sicuramente viziati da quell’entusiasmo eccessivo e non corrispondente ai fondamentali. Ma casi di debutti non sempre brillanti sono anche svincolati da periodo particolari. Uno è quello di Facebook che si è quotato sul Nasdaq a maggio del 2012: per un anno intero il titolo non fece altro che scendere arrivando a un minimo di 18 dollari da un prezzo di Ipo di 38. Gli investitori erano spaventati, anche il quel caso, dal business che prometteva molto in termini di profitto ma che sembrava poco interessante come volume di affari. Ed era tuttosommato una scatola vuota, confrontato a competitor del calibro di Google e Apple. Dopo un anno però le sorti del primo social network di era moderna si sono ribaltate: oggi Facebook vale 109 dollari e chi non ha avuto fretta di vendere è stato premiato. Ovviamente questo è valso per Facebook e l’attesa non è necessariamente una scelta premiante.

FLOP DI CASA NOSTRA
Anche in Italia, nello stesso periodo della bolla delle dot.com ci furono alcuni debutti disastrosi per chi scelse di aderirvi: Tiscali, che “con una capitalizzazione di 18 miliardi divenne nel 2000 una delle compagnie più importanti listate su Borsa Italiana, per poi vedere scendere le proprie azioni da 50 euro nel febbraio 2000 (dopo la conversione in lire a valori rettificati) a 6 centesimi a fine settembre 2001”, dicono ancora gli analisti di Moneyfarm. Tiscali è ancora operativa e capitalizza 110 milioni. Emblematico è anche l’esempio di Finmatica, società produttrice di Software che nel novembre 1999 debuttò con 5 euro ad azione, fece registrare il record del 700% di performance il primo giorno di quotazione (chiudendo intorno a 40 euro). Toccò il massimo di 174,5 euro nel marzo 2000 e a settembre del 2001 l’azione valeva 8 euro.

PETROLIO & PIUMINI
Più di recente fece clamore la quotazione di Saras nel 2006 a 6 euro per azione: al debutto chiuse la seduta con un perdita dell’11% e a fine 2012 l’azione aveva perso l’85% valendo ormai appena un euro. La società petrolifera, che nel frattempo ha subito il crollo del prezzo del petrolio e ha presentato per lo più bilanci non brillanti, tratta ancora sotto i sei euro del debutto. Forse l’attesa premierà chi ci ha creduto all’inizio o forse no – e meglio sarebbe uscire prima di perdere di più.
Caso inverso quello di Moncler, arrivata in Borsa il 16 dicembre del 2013 in un anno in cui nessuna società aveva tentato l’avventura di Piazza Affari, viste le condizioni avverse del mercato. Molte potenziali matricole avevano anzi fatto marcia indietro nel corso dell’anno. Inevitabile che l’attesa sul produttore di piumini fosse altissima: l’offerta fu coperta quasi 30 volte e il primo giorno il titolo segnò un rialzo del 46% a 16 euro da 10,2. Da gennaio però – l’entusiasmo si era probabilmente affievolito – iniziò una discesa che riportò la quotazione sui livelli iniziali. Anche in quel caso solo gli investitori in grado di prevederlo sono riusciti a intascare la plusvalenza generata nel primo mese.

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