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In tutti i mesi che hanno separato, in questo drammatico 2015, la prima dalla seconda (ancora più grave) serie di attacchi al cuore di Parigi, si sono sentite tante voci di condanna degli attentati e di solidarietà alle vittime. Più o meno sincere, più o meno efficaci. Tranne casi eccezionali o di circostanza, la risposta interna allo stesso mondo islamico, soprattutto alle comunità che vivono stabilmente in Europa, è stata invece blanda e imbarazzata (logica avrebbe voluto che fosse stato il contrario, soprattutto per “salvare l’onore” della comunità). Non credo sia un caso, né credo che questo elemento vada sottovalutato.

Se è vero che “siamo in guerra”, come ha detto Hollande, e se vogliamo che questa espressione non sia ancora una volta mera fuffa retorica, dobbiamo individuare e capire bene il nemico con il quale combattiamo. Cominciando a chiamare le cose per nome, senza timore di urtare sensibilità e senza quell’insicurezza sui nostri valori ultimi che è l’elemento più pericoloso per chi combatte una guerra.

Quello che ci aggredisce è infatti non un terrorismo che va contro gli ideali e il testo scritto di una religione di pace, ma un’interpretazione di quella religione perfettamente legittima (insieme ovviamente ad altre), cioè del tutto coerente con i suoi principi di fondo.

Non ho la cultura e la competenza specifica di un mio amico sociologo che l’altra sera, a cena, ancora prima degli ultimi terribili atti, diceva a me e ad altri commensali di essere giunto alla conclusione che “il problema è nell’Islam” stesso. Mi sembra tuttavia evidente che, al contrario del cristianesimo, l’islamismo non è una religione dell’amore e della carità. Ma, in fin dei conti, non è nemmeno questo il problema principale.

Il fatto è che quella islamica è una religione che non contempla la separazione fra potere politico e potere religioso, fra legge umana e legge divina. La teocrazia è ad essa intrinseca, non il risultato di una deviazione storica dai principi impressi nella carta come storicamente essa è stata in ambito occidentale: non a caso si parla di “cesaropapismo” come di un tradimento della massima evangelica “dai a Cesare quel che è di Cesare e a Cristo quel che è di Cristo”.

La secolarizzazione liberale, tanto invisa agli islamici, è quasi l’evoluzione storica del cristianesimo, il suo concreto realizzarsi. Che essa sia avvenuta in questa parte di mondo non è perciò un caso. Una eventuale e auspicabile secolarizzazione islamica è molto più problematica (che io sappia l’unico tentativo riuscito di separare, nel mondo islamico, mondano e divino fu quello compiuto, con la forza delle armi, da Ataturk in Turchia).

È da questi ragionamenti che traggo allora la mia deduzione: gli islamici non fanno sentire chiara e netta la loro voce di condanna dell’islamismo politico da una parte perché c’è nel loro mondo una vasta “zona grigia” che, anche se non passa all’azione, copre e giustifica (almeno in parte) chi ha fatto la scelta più radicale; dall’altra, perché sentono “aria di famiglia” in chi passa alla jihad.

Credo che se non teniamo presente il primo aspetto e se continuiamo a negare il secondo, come in sostanza stiamo facendo, abbiamo davvero poche speranze di uscire vittoriosi dalla guerra che di fatto ci è stata dichiarata.

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