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I loro padri han cominciato ad arrivare in Italia all’inizio degli anni 80, con l’intento ben chiaro di tornare nel paese d’origine dopo aver messo da parte un po’ di risparmi. Le loro madri sono arrivate qualche anno più tardi, per raggiungere quegli uomini partiti e non più tornati. Loro invece son nati pochi mesi dopo le brevi vacanze dei padri au bled (paese d’origine) o quando le madri sono arrivate in Italia, anche loro convinte di un ritorno spesso rimasto solo una malinconica prospettiva. Dopo aver passato anni nelle scuole italiane a far fronte a battutine razziste e sguardi derisori, ma anche a costruire amicizie e normale quotidianità, oggi quei ragazzi e quelle ragazze sono cresciuti ed han cominciato ad alzare la voce per chiedere alla società e alle istituzioni, ma anche ai loro genitori e alle loro comunità, di essere riconosciuti per quel che si sentono, cittadini italiani di fede islamica.

A differenza dei “cugini” d’oltralpe che li hanno preceduti, i giovani della cosiddetta “seconda generazione”, cioè nati e/o cresciuti in Italia, non sono (ancora) confrontati a quella che il sociologo franco-algerino Abdelmalek Sayad aveva definito “la doppia assenza”, ossia non sentirsi né del paese in cui sono cresciuti né del paese d’origine dei genitori o, detto altrimenti, sentirsi fuori luogo sia di qua che di là. Benché spesso privi della cittadinanza italiana, i giovani si sentono semplicemente italiani, senza negare le proprie origini o vergognarsi della propria religione. Il loro accento fiorentino, milanese, napoletano, palermitano sembra essere lì a testimoniare il loro senso d’appartenenza, così come lo sono la djellaba (la lunga tunica portata dagli uomini), la barba, il velo o quant’altro testimoni la loro fierezza d’essere musulmani. Quando gli si domanda come si vedono nella città in cui vivono, Fatima risponde col suo accento emiliano “come il parmigiano su una tavola da pranzo bolognese”, mentre Youssef si vede come “un essere umano come tutti gli altri” e Mohammed come “un cittadino (ma davvero!)”.
Tutt’altra cosa rispetto ai genitori, che si vedevano semplicemente come migranti in transito, preoccupati di mantenere l’identità e creare la propria comunità senza prestar troppa attenzione alla società in cui vivevano, o che, al contrario, avevano paura di esprimere apertamente la loro fede religiosa. I giovani invece non hanno nessun timore a mostrare pubblicamente la loro doppia appartenenza: “conosco sia la cultura da dove provengo che quella in cui vivo – afferma convinta Sara – la nostra doppia cultura è un valore aggiunto”. La responsabilità d’esser ponte tra culture e generazioni è comunemente considerato un valore, ma anche un peso non sempre facile da sopportare, come afferma Latifa: “Mi sento investita di rappresentare tante cose: l’essere italiana, marocchina e musulmana … e a volte ci si perde come in un labirinto … perché devi mediare costantemente”.

È proprio lo sguardo incrociato della società e dei genitori, delle istituzioni e della comunità, ad emergere come il più grande ostacolo, forse la più grande sfida, che hanno di fronte i giovani italiani musulmani. Le istituzioni sono infatti accusate d’alimentare la condizione d’emarginazione delle comunità islamiche attraverso politiche d’esclusione ed un’evidente incapacità al dialogo. Ma quel che i giovani soffrono di più è la cattiva immagine di cui l’islam e i musulmani godono in Italia, un’immagine in totale contrasto con quella che loro hanno di sé stessi all’interno delle città in cui vivono, di cui si sentono semplicemente parte integrante.
Secondo loro, le cause di un tale divario sono sì da ricercare nella cattiva informazione veicolata dai media e nel discorso prodotto dai politici, ma anche, se non soprattutto, negli errori e nelle mancanze dei musulmani stessi, “accusati” di non aver fatto niente o quasi per costruirsi un’immagine positiva nelle realtà in cui vivono. “Il 90% è colpa nostra – dice apertamente Abdel – Facciamo del vittimismo, non sappiamo formulare un’idea. Non abbiamo fatto niente per cambiare l’immagine dell’islam in città”. Secondo i giovani, se si vuole effettivamente far fronte alle forme di discriminazione ed esclusione che i musulmani continuano a subire pressoché quotidianamente nelle città italiane, non ci si può accontentare d’addossare tutte le responsabilità a società, istituzioni e media, ma bisognerebbe partire da un’autocritica che metta in discussione il modo di parlare ed interagire con le realtà in cui i musulmani vivono e di cui dovrebbero sentirsi parte. Non più chiusi nelle proprie moschee, né ghettizzati in certe periferie dove si parla più arabo che italiano, né esclusi dai luoghi d’incontro della città, ma giustamente dentro le mura della polis, partecipi della vita cittadina e delle decisioni che li riguardano.
La consapevolezza di questa nuova generazione deve però fare i conti con la riluttanza a criticare apertamente il modo d’operare dei genitori e, più in generale, delle comunità islamiche: “è come essere in equilibrio tra il passato e il futuro – confida Fatima – I genitori sono arrivati qui e hanno dovuto inserirsi in questa comunità anche con grandi difficoltà linguistiche”. Alla riluttanza a criticare la generazione che li ha cresciuti si aggiunge la difficoltà dei giovani a farsi sentire dalle istituzioni, che continuano a mostrarsi incapaci di considerarli “semplicemente” italiani. Per intraprendere la strada del cambiamento sarebbe dunque necessario che le istituzioni comincino a dare risposte più coraggiose, a cominciare da una legge sulla cittadinanza che introduca definitivamente lo ius soli, e che le comunità islamiche imbocchino finalmente la strada d’un effettivo ricambio generazionale che metta fine alla gestione di coloro che continuano (con tutta legittimità) a non sentirsi parte della società in cui vivono.

Islam e dintorni: L’islam dei giovani

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