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Aerei israeliani sarebbero entrati e usciti dallo spazio aereo iraniano nel 2012 per compiere un volo di prova per un possibile attacco all’impianto nucleare di Fordow. L’ha scritto il Wall Street Journal, in un articolo in cui ha analizzato la crisi di fiducia che si è sviluppata nel corso degli ultimi anni tra gli Stati Uniti e Israele: l’inchiesta giornalistica è corroborata da decine di testimonianze di funzionari sia americani sia israeliani, che hanno parlato in anonimato del logorarsi delle relazioni e fatto cenno alla vicenda del test di attacco, un “dry-run” come si definisce in termine militare (in Italia la storia è stata raccontata sul Corriere della Sera da Guido Olimpio).

UN INIZIO TRABALLANTE

I rapporti tra i due alleati, una tempo molto cordiali e collaborativi, si sono cominciati a raffreddare già dal 2009, al primo incontro nello Studio Ovale tra Benjamin Netanyahu e Barack Obama: l’antipatia personale tra i due, non è un segreto. Ma all’aspetto personale si abbinarono subito visioni e prospettive diverse: l’israeliano aveva (ed ha) l’Iran come nemico esistenziale (sentimento ricambiato da Teheran), mentre Obama cercava già una via diplomatica alla “questione iraniana”. In base a queste premesse, secondo quello scritto dal WSJ, è facile capire come mai sia Washington sia Gerusalemme scelsero di portare avanti i propri piani in segreto, invece di comunicare reciprocamente. Mentre Obama avviava un background channel per intavolare la trattativa sul nucleare con gli ayatollah, Netanyahu pensava ad una missione militare per distruggere i reattori.

MOLTI SEGRETI

I funzionari americani hanno raccontato di non essere stati mai avvisati in anticipo di operazioni in incognito, come quelle condotte dal Mossad, il servizio segreto estero israeliano, per assassinare alcuni scienziati nucleari iraniani. Altra storia è quella del virus informatico Stuxnet, studiato da Israele e Stati Uniti per lanciare attacchi cibernetici contro le centrifughe delle centrali iraniane. Stuxnet non serviva semplicemente per introdursi in un sistema e copiarne i dati, “ma era in grado di distruggere fisicamente apparecchiature controllate dai computer” ha scritto Kim Zetter sul Daily BeastNetanyahu voleva utilizzarlo a tutti i costi, ma Obama temeva le possibili implicazioni della diffusione. Era il 2010, da lì in poi Israele cominciò a studiare seriamente una missione militare in Iran.

UNA MISSIONE SUICIDA

Gli analisti della Difesa americana esaminarono la situazione, giungendo alla conclusione che Israele non aveva le potenzialità necessarie per distruggere gli impianti iraniani attraverso normali attacchi aerei. Gerusalemme, recepita l’informazione, elaborò un’altra strategia: aerei cargo avrebbero scaricato squadre di commando sul posto (un’area impervia, Fordow è costruito dentro una montagna) i quali avrebbero sfondato le fortificazioni e fatto saltare l’impianto dall’interno. I funzionari americani hanno ammesso al WSJ di aver pensato subito che sarebbe stata una missione suicida. Washington chiese comunque di essere avvisata prima dell’eventuale via libera alla missione, ma pare che gli israeliani non s’impegnarono a riguardo. “Se questo era tutto uno sforzo per cercare di fare pressione su Obama, o se Israele si stava davvero avvicinando a una decisione, non è chiaro”, ha dichiarato al WSJ Michèle Flournoy, che all’epoca era Under Secretary of Defense for Policy, uno dei più alti ruoli del Pentagono.

LE INTESE ATTIVITÀ DI SPIONAGGIO

Alla linea dura di Netanyahu, Obama rispondeva con richieste di de-escalation: era il 2011, quando incaricò John Kerry, che ai tempi era ancora soltanto senatore e non ancora Segretario di Stato, di sondare il terreno sulla disponibilità dell’Oman per fare da mediatore con Teheran.

Nei mesi successivi, mentre Obama dichiarava di “non bluffare” nel tentativo di arrivare all’accordo sul nucleare iraniano, l’intelligence americana aumentava la sua attività di spionaggio. Non c’è da stupirsi, tutti spiano tutti, sia alleati che nemici. Erano i primi mesi del 2012, quando i servizi di Washington cominciarono ad osservare Netanyahu impegnato in numerosi incontri con i vertici militari. Dalle intercettazioni risultò che si parlava della missione in Iran: gli israeliani volevano muoversi nelle notti senza luna, e sembrava che l’attacco si stesse concretizzando. I Servizi Usa cominciarono a monitorare costantemente l’IAF (Israeli Air Force) e riuscirono anche a tracciare la formazione che sorvolò l’Iran in perlustrazione (ma in assetto da combattimento). Quando Israele iniziò a sondare la possibilità di acquisto dagli Stati Uniti delle Massive Ordnance Penetrator, bombe da 30 mila libbre progettate proprio per distruggere bunker nucleari, l’America gliene negò la fornitura (il piano che riguardava il blitz delle forze speciali si rivelava via via un bluf, visto che quando gli Usa proposero la vendita degli Osprey, aerei a decollo variabile che sarebbero stati indispensabili per trasportare i commando, Israele rifiutò per carenza di fondi).

I COLLOQUI SEGRETI E LA LINEA DIPLOMATICA

Nel frattempo, la Casa Bianca teneva il premier israeliano all’oscuro delle trattative avviate con l’Iran, per paura che Gerusalemme potesse sabotarle. Secondo i funzionari americani intervistati, Netanyahu sarebbe stato informato soltanto quando il negoziato avrebbe preso carattere ufficiale. A settembre 2013 diplomatici israeliani rivelarono agli omologhi americani che i propri Servizi avevano identificato i numeri di coda dei voli che trasportavano i negoziatori a Muscat, in Oman, dove avvenivano gli incontri segreti con gli iraniani. Il 30 settembre, durante un incontro con il premier Netanyahu, Obama ammise l’esistenza dei colloqui segreti con l’Iran. A novembre di quello stesso anno fu annunciato l’avvio dell’iter diplomatico che avrebbe portato poi, dopo due anni e una lunga serie di deadline non rispettate, all’attuale accordo, dal cui tavolo Israele è stato tenuto fuori. Già nel 2014, le agenzie di intelligence americane avvertirono i funzionari incaricati a trattare con l’Iran, che gli israeliani stavano spiando gli incontri. Il resto è, praticamente, storia di questi giorni.

L’IRAN RIQUALIFICATO: LA VITTORIA DI OBAMA

Tra le pressioni israeliane (e quelle di diversi Paesi arabi) l’Iran è riuscito a chiudere un accordo che però, man mano che passano i giorni, scopre sempre più lati deboli. Il deal ha permesso a Teheran non solo di lasciare intatte le centrali, congelando alcune di quelle centrifughe che gli israeliani volevano distrutte, ma anche di ottenere una riqualificazione internazionale. Hassan Rouhani, il presidente che per semplificazione consideriamo moderato anche perché è messo in relazione alla follia oltranzista del suo predecessore Mahmoud Ahmadinejad, sarà in visita ufficiale in Italia (la prima in Unione europea dall’elezione). Incontrerà il presidente del Consiglio Matteo Renzi e quello della Repubblica Sergio Mattarella, poi andrà da Papa Francesco, secondo quanto rivelato all’agenzia Reuters da una fonte interna a Teheran. Qualche giorno fa, sempre il Wall Street Journal raccontava del via vai che c’è nella capitale iraniana: è piena di uomini d’affari occidentali pronti a chiudere per primi il primo contratto dopo il sollevamento delle sanzioni (processo già avviato da Usa e Ue). La leadership iraniana sta godendo un momento di splendore, grazie alla volontà di dialogo dimostrata nel corso degli anni dal presidente Obama, che ha affidato all’accordo con l’Iran il grosso della sua legacy in politica estera. I piani israeliani, invece, non sembrano troppo cambiati: pochi mesi fa si è tornato a parlare della possibilità di un’azione militare di Gerusalemme contro l’Iran. Secondo alcune rivelazioni, uno special team sarebbe stato creato dai vertici della Difesa, per studiare un altro possibile piano di attacco.

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