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Mentre la crisi ucraina sembrava vivere una fase di stallo, ieri Vladimir Putin è tornato è tornato ad avvertire l’Occidente, annunciando contromisure allo scudo antimissile di Washington. Parole che sono seguite a uno scandalo che ha coinvolto l’atletica di Mosca. Doping di Stato: è l’accusa che la commissione della Wada, l’agenzia mondiale antidoping, ha rivolto all’Fsb, i servizi segreti russi, e al ministro dello sport Vitaly Mutko.

Che effetti avranno queste vicende su teatri come Ucraina e Siria? Come cambierà il rapporto tra Russia e Occidente? E quali saranno le prossime mosse del presidente russo?

Sono alcuni dei temi analizzati in una conversazione di Formiche.net con Carlo Pelanda (nella foto) coordinatore del dottorato di ricerca in geopolitica e geopolitica economica dell’Università Guglielmo Marconi di Roma ed editorialista di Italia Oggi e Mf/Milano Finanza. Da novembre è nelle librerie un suo nuovo lavoro: Nova Pax (Franco Angeli editore).

Quanto c’è da preoccuparsi per le parole del Cremlino sullo scudo antimissile?

Poco, per il momento. Mi sembra normale dialettica politica, in un momento in cui la Nato svolge una esercitazione piuttosto impegnativa (Trident Juncture 2015, ndr).

Alcuni analisti hanno interpretato le parole del presidente russo come una reazione alla vicenda sul doping di Stato, che, nell’establishment moscovita, è stato descritto come “un attacco politico”.

Operazioni di questo tipo sono sempre difficili da addebitare se non si ha accesso a tutte le informazioni. Ma tutto lascia pensare che lo scandalo sia frutto di dinamiche interne e che la vicenda avrà effetti nulli nel rapporto tra Mosca e l’Occidente.

Qualcuno in Russia prova a deporre lo “zar”?

Da quando è iniziato il braccio di ferro per la Crimea, sfociato poi nell’annessione alla Russia e nelle sanzioni occidentali, in Russia è accaduto qualcosa. C’è una turbolenza che Putin riesce per il momento a tamponare, ma che potrebbe sfuggirgli di mano. Ovviamente non mi riferisco al popolo russo, poco abituato sia ai partiti sia alla democrazia intesa in senso occidentale, ma alle élite del Paese.

La crisi ucraina, massimo terreno di scontro tra Usa e Russia, per il momento pare congelata. Dipende anche dai problemi interni di Putin?

No, in questo caso si tratta di una storia a sé. Prendendosi la Crimea, Putin ha ottenuto quel che voleva sia sul piano strategico sia su quello politico. Ora ha tutto l’interesse a trovare buone relazioni con Washington. Nel farlo, a volte, nascono delle frizioni. E il terreno di questo scontro tra i due Paesi non è l’Ucraina, ma l’Europa intera.

Putin punta al Vecchio Continente?

Non è il ritorno della Guerra Fredda, ma c’è una guerra segreta in corso. L’integrazione politica europea stenta a decollare. Bruxelles non esiste come interlocutore internazionale e mostra sempre più crepe. L’unica cosa che tiene ancora insieme il Vecchio Continente sono proprio gli Stati Uniti. Washington ha l’interesse a tenere unita l’Europa e sta provando a farlo con il Ttip, il trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti che darebbe vita a un’area economica del 60% del pil mondiale. Dal canto suo la Russia fa pressioni, spesso riuscite, su alcuni Stati europei, per bilanciare il peso della Cina. Ma se il Ttip si concretizzasse, in una seconda fase gli Usa lascerebbero la possibilità di aderirvi anche a Mosca. Le farebbero un favore, perché la Russia cerca di divincolarsi dall’abbraccio di Pechino, prima di essere stritolata. Se invece il Ttip dovesse fallire, per l’Europa si aprirebbe uno scenario fosco, che la vedrebbe divisa tra una regione a influenza americana e un’altra a influenza sino-russa, con la Repubblica Popolare a dettare le regole.

Le cose non vanno meglio in Siria, dove Washington accusa Mosca di bombardare i ribelli ostili al dittatore Bashar al-Assad, invece di colpire lo Stato Islamico. Anche il Medio Oriente rientra in questo risiko?

In quel teatro, malgrado la canea mediatica, tra Usa e Russia c’è un accordo pieno. Si va verso un nuovo equilibrio regionale, che porterà a nuovi confini, anche per il territorio di Damasco. Mosca, che è una media potenza, intervenendo è riuscita a preservare le sue basi nel Mediterraneo e controllerà insieme all’Iran la parte alawita della Siria. L’intento è quello di favorire la nascita di due Stati, con l’attuale Califfato che verrà trasformato in uno Stato sunnita. Una sorta di cuscinetto sotto influenza saudita e americana, che impedirebbe al regime degli ayatollah di avere una continuità territoriale nell’ambito della cosiddetta “mezzaluna sciita” che va da Teheran, passa per l’Iraq attraversa la Siria e arriva nel Sud del Libano con gli Hezbollah. Una guerra combattuta finora attraverso “proxy” e finanziamenti anche a gruppi estremisti che sono ancora in piedi perché funzionali a questo progetto.

Tutte le pene di Putin. L'analisi di Pelanda

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