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È una partita a poker quella che Francesco sta giocando con Israele sulla base del riconoscimento – entrato in vigore a Capodanno – di quello che la Santa Sede chiama «Stato di Palestina». Un riconoscimento – che porta alla definizione dello status della Chiesa cattolica in Palestina – in grado di suscitare le ire di Israele, come abbiamo già riferito su ItaliaOggi il 15 maggio scorso.

Una decisione che ha messo in difficoltà le trattative – ormai ventennali – sullo status della Chiesa cattolica in Israele e irritato non poco Tel Aviv.

Ma è una partita a poker che Jorge Mario Bergoglio può giocare bene. Perché sa di partire avvantaggiato nei confronti del mondo ebraico, che a sua volta mostra una certa simpatia nei suoi confronti. Lo ha spiegato bene il quotidiano israeliano Haaretz nel settembre di quest’anno, poco prima della visita papale in America: «Nei due anni del suo Papato, gli ebrei sono stati colpiti tra l’altro dalle forti prese di posizione papali contro l’antisemitismo, il suo approccio più flessibile ad alcuni temi politici e sociali sui quali molti ebrei hanno una posizione più aperta».

Restano però alcuni punti in sospeso. Il primo: la beatificazione di Pio XII. Il secondo: l’apertura dell’Archivio segreto vaticano, al momento consultabile fino al 1939. Per quanto riguarda Eugenio Pacelli, Bergoglio ha parlato col quotidiano spagnolo La Vanguardia nel 2014, dichiarando che: «Durante l’Olocausto, Pio XII ha dato rifugio a molti ebrei nei monasteri italiani e 42 neonati di coppie di ebrei e di rifugiati sono venuti al mondo sul letto del Papa a Castelgandolfo. E ancora: «( ) il suo ruolo deve essere letto nel contesto di quel tempo. Era meglio, ad esempio, che non parlasse perché non venissero uccisi più ebrei, oppure che lo facesse?». E l’Archivio? Quello si aprirà appena saranno risolti alcuni problemi burocratici, ha detto. Pio XII, peraltro, sarà Beato secondo questo Papa quando ci sarà il miracolo prescritto dalla legge canonica.

Insomma, sulla base della forte simpatia – e della relazione personale col mondo ebraico, nata a Buenos Aires dove c’è una grossa comunità ebraica – che ha saputo catalizzare, Francesco spera di far digerire a Tel Aviv l’accordo con la Palestina.

Del resto, la consonanza di vedute con l’ebraismo c’è anche nelle riflessioni pubblicate il 10 dicembre scorso in Vaticano per i 50 anni della Nostra Aetate, il documento conciliare che condannò l’antisemitismo verso gli ebrei, definiti «fratelli maggiori» dei cattolici. Vi si legge: «la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei».

Tuttavia: «i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei» con umiltà e sensibilità. Si chiede l’impegno comune delle due religioni: «a favore della giustizia, della pace, della salvaguardia del creato e della riconciliazione in tutto il mondo», ma: «Prerequisito di tale dialogo e di tale pace è la libertà di religione garantita dalle autorità civili. Al riguardo, il banco di prova consiste nel modo in cui le minoranze religiose sono trattate e in quali diritti vengono loro concessi».

Che Roma stia cercando comunque un modus vivendi con Tel Aviv? Vedremo. Intanto il 17 gennaio, giorno della visita papale alla Sinagoga di Roma, si avvicina.

(Pubblichiamo questo articolo uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori)

Che cosa succede fra Papa Francesco e Israele

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