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Le comunità di analisti di rischio politico di tutto il mondo stanno scenarizzando i possibili esiti dello sboom finanziario cinese. Dopo lo zenit dell’anno scorso, i ripetuti smottamenti del mercato azionario interno e le continue, quanto finora infruttuose, azioni di tamponamento da parte dell’apparato centrale cinese si prestano a ipotesi molto diverse.

Uno degli scenari finora passati più in sordina nell’info-sfera occidentale descrive una potenza, Pechino, che si scopre improvvisamente fragile. Priva tanto delle forze propulsive interne quanto di quelle esterne, agli occhi dei mercati di capitali la Cina rivela più che mai le forti asimmetrie precedentemente  condonate dai mercati in cambio di una crescita gagliarda e del generoso sostegno offerto ai debiti sovrani del Vecchio Continente e di Washington. Nell’eventualità di un ricalibramento fiduciario, molti investimenti migreranno verso gli States e l’Europa. Anche l’Italia, nonostante la ben nota combinazione tra squilibrio demografico, volatilità politica, crescita anemica e debito ipertrofico, si rivela un porto comparativamente sicuro per il nomadismo globale dei risparmi. Per Roma, si dirà, sarà una piacevole brezza geo-economica. Un po’ come il prezzo del barile basso e il quantitative easing di Draghi, e al contrario delle sanzioni alimentari della Russia che hanno danneggiato uno dei settori più vivaci dell’export tricolore sul fronte orientale.

La prospettiva di un beneficio a breve termine rappresentato da capitali in fuga da Pechino che sostano in Occidente rischia tuttavia di far sottovalutare il nervosismo dei vertici cinesi di fronte al rischio di una perdita di fiducia da parte della grande finanza globale e a quello di macro-masse tumultuanti di aspiranti classi medie cinesi. Queste ultime si vedono passare allo stadio Buddenbrook  senza aver prima gustato il sapore pieno della borghesia. Si tratterebbe di un “salto” che ricorda da vicino quello previdenziale – esito di politiche di programmazione demografiche che hanno accomunato Pechino all’Occidente nelle sue piaghe più problematiche, senza tuttavia garantirle un periodo di prosperità altrettanto esteso.

Quali saranno, dunque, le reazioni della Cina? A doverselo chiedere sono soprattutto le democrazie occidentali, negli ultimi anni destinazione privilegiata di un massiccio flusso di investimenti cinesi. E se un recente report di Dagong Europe, l’agenzia di rating cinese il cui quartier generale è a Milano, certifica che l’Italia è balzata al secondo posto in Europa dopo l’Inghilterra, qualche interrogativo dovrà sorgere anche dalle nostre parti. L’Italia, ciclicamente terra di conquista per stranieri, ha ultimamente fatto da apripista negli investimenti cinesi in settori considerati universalmente strategici schiudendo ai cinesi di China State Grid le reti elettriche (Terna) e del gas (Snam). Ha poi ammesso il fondo sovrano cinese al gran ballo del capitalismo municipale accogliendolo in F2I, il fondo specializzato in infrastrutture locali partecipato dalla Cassa Depositi e Prestiti. Senza parlare della lunga lista di investimenti in società quotate, spesso per quote che fanno scattare gli obblighi di pubblicità e dunque sono notate dal pubblico. È lecito sostenere che, oltre alle tradizionali strategie di investimento in asset liquidi, Pechino grazie a questi investimenti particolarmente “visibili” abbia anche conseguito un miglioramento nel gradimento da parte degli italiani. Tanto è vero che PEW, il centro di sondaggi americano, ha riscontrato un gradimento in crescita dal 27% del 2007 al 40% del 2015, anno del boom di investimenti nel Belpaese.  Un discorso a sé meritano poi gli investimenti nelle banche italiane. Lo shopping nelle banche italiane infatti consente più di altri di contemperare strategie finanziarie con altri benefici di cui tradizionalmente godono gli azionisti di minoranza di banche e assicurazioni tricolore, come il disporre di ottima stampa.

Il salto di qualità negli investimenti cinesi in Italia – da finanziari a strategici e di influenza – si nota anche nella tendenza a investire in “asset culturali” o di intrattenimento variamente inteso. La narrativa popolare è in particolare che il calcio sia lo sport preferito da Xi Jinping, ma le decisioni del governo cinese partono da considerazione ben più ragionate. In particolare qualche mese fa (marzo) il Consiglio di Stato cinese ha lanciato, con grande risonanza mediatica, le linee guida per lo sviluppo del calcio, partendo dalle scuole e arrivando a livelli professionistici. A questa dimensione di consenso domestico va aggiunta la costruzione di una articolata strategia esterna di soft power, mediante il coinvolgimento di operatori privati caratterizzati da forte prossimità alla politica. È il caso dell’acquisto da parte del gruppo Wanda di Infront, il gigante elvetico che gestisce diritti televisivi del calcio, e che ha un terzo del proprio fatturato proveniente dalla Serie A italiana. Mr. Wang, il dominus di Wanda, è un tycoon privato legato a filo doppio al politburo cinese. Particolarità che fece dire a Joe Nye, in una memorabile litigata con Wang al World Economic Forum Davos di qualche anno fa,  che Wang è “l’incarnazione del soft power cinese”.

Di qui la domanda: quanto è consapevole Roma di essere uno dei maggiori laboratori strategici cinesi in Occidente? Quanto è attrezzata a sostenere increspature nei rapporti di forza globali? Come potrà far fronte ad azioni di condizionamento strategico?

(Questa analisi è stata pubblicata la scorsa settimana dal quotidiano Il Foglio)

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