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A Palazzo Chigi lo ripetono in continuazione, quasi fosse un mantra. Bisogna tagliare le tasse. Al Tesoro sono della stessa idea ma sanno pure che dalle parole ai fatti ce ne vuole e non si può dare un taglio secco alle tasse senza prima fare i conti con l’Ue e l’eventuale concessione da parte di Bruxelles di ulteriori spazi di manovra.

Ci sono però alcuni numeri che devono far riflettere. Tra questi, le cifre diffuse oggi dalla Cgia di Mestre, il cui ufficio studi fa sovente il punto della situazione sul tormentato rapporto fisco-cittadini.

E, ancora una volta, emerge tutta l’incomprensibilità di certi meccanismi fiscali. Come quello della Tari, il prelievo fiscale sulla raccolta dei rifiuti erede della Tares e prima ancora della Tarsu. Un balzello che i contribuenti devono versare all’amministrazione locale per vedersi i propri rifiuti raccolti e smaltiti dalle municipalizzate locali. Giusto pagare per un servizio, ancora più giusto se il servizio funzionasse come si deve. Ma non è questo il punto.

La questione è che in cinque anni, dal 2010 al 2015 secondo i calcoli della Cgia, una famiglia con 4 componenti che vive in un casa da 120 metri quadrati ha subìto un aumento del prelievo relativo all’asporto rifiuti del 25,5%.  In termini assoluti si tratta di un aggravio di 75 euro. E il che vuol dire che quest’anno dovrà versare al proprio Comune 368 euro di Tari. Se poi parliamo di una famiglia di 3 componenti, che abita in un appartamento da 100 mq l’aumento è del 23,5% (+57 euro). Ora, che le tasse aumentino, nonostante il mantra di Palazzo Chigi, non è una notizia. Ma c’è una questione a dir poco inquietante dietro i numeri della Cgia e che rappresenta la vera riflessione da fare.

Ossia il fatto che la Tari si basa, ai fini del calcolo, su una tariffa comunale inserita in un regolamento e costituita a sua volta da una parte variabile e da una parte fissa. La parte fissa viene determinata tenendo conto dei costi e degli investimenti necessari ad assicurare il servizio di raccolta e smaltimento, mentre la parte variabile viene determinata dalla quantità di rifiuti che il nucleo famigliare del contribuente produce ogni anno. A questo proposito, per facilitare i calcoli e responsabilizzare gli enti, la legge di stabilità 2014 ha concesso ai comuni la possibilità di utilizzare appositi metodi di misurazione della quantità di rifiuti prodotta e di gestione dei servizi di smaltimento, per giungere alla determinazione della tariffa. Il principio in questione è insomma quello comunitario del “chi inquina paga” con cui si sancisce  in buona sostanza la corrispondenza tra la quantità di rifiuti prodotti e l’ammontare della tassa. In pratica se un comune produce più immondizia degli altri deve applicare un’aliquota superiore.

Dov’è l’inghippo? Semplice. Tornando alla Cgia, l’associazione degli artigiani fa notare come dall’inizio della crisi ad oggi la produzione annua procapite di rifiuti sia diminuita dai 557 chilogrammi del 2007 ai 491 del 2013. Nel 2012 in Europa, dati dell’Istituto per la ricerca ambientale, la produzione di rifiuti è scesa del 2,4% sul 2011. Insomma, i rifiuti calano ma la tassa sulla raccolta aumenta uguale. Com’è possibile? Porsi delle domande a questo punto è lecito e l’uomo del marciapiede forse lo sta già facendo. Il primo pensiero va alla partecipate degli enti locali che coi loro bilanci in rosso necessitano di continue iniezioni di liquidità, ottenuta con il mantenimento dei tributi a livelli di guardia. Ma la domanda di fondo rimane.

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