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La goffaggine ormai abituale della polemica politica in Italia non poteva farsi scappare l’occasione della improvvisa e festosa trasferta di Matteo Renzi a New York, in occasione dell’eccezionale finale tricolore dell’Us Open di tennis, per farne un caso. Ciò che in qualsiasi Paese normale non sorprende, o è addirittura considerato un dovere per chi guida il governo e sente l’obbligo di rappresentare la collettività nazionale, dalle nostre parti mobilita le migliori energie politiche e mediatiche per scontrarsi semplicemente sul nulla.

Il primo a protestare, a suo modo, tra il serio e il faceto, è stato il “governatore” della Puglia Michele Emiliano, che aspettava inutilmente Renzi a Bari per l’inaugurazione della Fiera del Levante. Ed ha trovato ascolto dappertutto, anche nei giornali che da tempo relegano nelle pagine interne, anzi internissime, l’evento pugliese, dedicandogli in prima pagina qualche richiamo in caso di clamorosi annunci dell’ospite governativo di turno per fatti e problemi estranei alla Fiera.

Nelle prime pagine dei giornali di vario, anzi opposto orientamento politico Renzi è invece balzato con le sue metaforiche racchette con tanto di calcoli dei costi della sua trasferta: 200 mila euro scarsi. Conditi peraltro con la velenosa precisazione di Enrico Letta di non avere disposto lui lo “spreco” del nuovo superjet ordinato per Palazzo Chigi dal suo successore.

Persino Eugenio Scalfari è sceso dalle nuvole, anch’esse metaforiche, dei suoi frequenti dialoghi festivi con Dio e il vicario di suo figlio in terra per certificare la discendenza di Renzi da Berlusconi, già annunciata peraltro da Giuliano Ferrara. Una discendenza provata dalla facilità con la quale entrambi, padre e figlio putativi, inseguono la popolarità correndo dove ritengono di guadagnarla più facilmente. E, nel caso di Renzi peraltro, senza rischio, come gli ha rimproverato Alessandro Sallusti sul Giornale, essendo state entrambe italiane le finaliste a New York, per cui il titolo era comunque assicurato ai colori nazionali.

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Poiché anche la polemica ha i suoi limiti, Scalfari ha indulgentemente ricordato il precedente di Sandro Pertini, corso a Madrid da presidente della Repubblica nel 1982 per assistere alla finale dei mondiali di calcio, portando fortuna all’Italia, ma pronto evidentemente anche ad accontentarsi di un pur sempre popolare secondo posto, se la sorte ci fosse stata sfavorevole.

Questo giusto e onesto richiamo di Scalfari a Pertini, cui mi permetto di aggiungere la festosa apparizione in piazza dell’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini per partecipare alla festa di popolo, lui che di calcio obiettivamente s’intendeva poco avendo tutt’altri interessi, potrebbe suggerire qualche domanda impertinente.

Siamo proprio sicuri che, dovendo essere la ricerca della popolarità il discrimine fra la politica cattiva e quella buona, Renzi debba e possa essere considerato il figlio di Berlusconi, che peraltro – diavolo di un uomo – questa volta è andato a cercarsela con Putin nella lontana Crimea per evocare le gesta dei piemontesi propiziatorie del Risorgimento italiano? Perché allora non proviamo a considerare Berlusconi figlio, a sua volta, di Pertini? E Renzi nipote, sempre di Pertini?

Se dobbiamo proprio rifare l’anagrafe politica con questi criteri, facciamolo sino in fondo. E continuiamo ad aggiungere paradossi ad altri paradossi, in un gioco nel quale la politica è l’unica a rimetterci, a destra e a sinistra. Ma anche al centro, viste le condizioni penose nelle quali è ridotto pure il centro. Né i grillini stanno meglio con quel Rousseau di cui si è appena vantato in una intervista Gianroberto Casaleggio.

Il Rousseau del socio di Grillo non è il filosofo ginevrino del 1700 Jean-Jacques, ma un presuntuoso sistema operativo con il quale al computer Casaleggio pretende di governare i 120 mila e rotti iscritti al Movimento Cinque Stelle dando loro indicazioni un po’ in latino e un po’ in inglese. Roba da far ridere, che è d’altronde il felice e originario mestiere di Grillo.

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Paradosso per paradosso, il Corriere della Sera ci ha informati, grazie a un sondaggio, che due italiani su tre condividono con Renzi la necessità della riforma del Senato. Il presidente del Consiglio ne sarà stato felice apprendendolo a New York. Meno felice sarà stato apprendendo che con lo stesso sondaggio il 73 per cento, sempre degli italiani, non degli americani, all’incirca due su tre pure loro, vogliono un Senato eletto ancora direttamente dai cittadini, cioè non come reclama lui, anche a costo di una crisi di governo. Che affonderebbe tuttavia la riforma e lascerebbe le cose come stanno.

(foto: Tiberio Barchielli)

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