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Dopo aver esultato per Alexis Tsipras in Grecia (per poco) e per Pablo Iglesias in Spagna, Nichi Vendola e Maurizio Landini ora esultano per Jeremy Corbyn in Inghilterra: si sono specializzati nei festeggiamenti per conto terzi.

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Per quello che possono valere le dichiarazioni d’intenti dei leader politici, è difficile catalogare la svolta del Labour Party come l’ennesima manifestazione del virus populista che secondo alcuni sta infettando l’Europa. La verità è più semplice. La socialdemocrazia nel Vecchio continente è alle corde. È in crisi nei Paesi scandinavi, ha un ruolo ancillare in Germania e il blairismo ha ormai esaurito la sua spinta propulsiva. Se non ci sono idee e visioni nuove per il futuro, non resta che tentare un ritorno al passato, quando gli operai erano operai e la lotta di classe era la lotta di classe. In fondo, Corbyn (si veda quanto sostiene nel discorso pubblicato oggi su la Repubblica) non fa che riprendere, con qualche inevitabile aggiornamento, le parole d’ordine con cui il sindacato britannico (Trade Unions) diede vita al Labour (1900).

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Ovviamente, ogni studioso ha il diritto di formulare le tesi che ritiene più aderenti alla realtà storica, ma l’accostamento che è stato fatto tra la coalizione sociale di Maurizio Landini e il sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel mi pare piuttosto temerario (v., ad esempio, Roberto Della Seta, il Foglio, 26 agosto). La prima è una baggianata vivente, il secondo in Italia è stato sepolto e senza bisogno di orazioni funebri proprio da chi vi aderì giovinetto: Giuseppe Di Vittorio. Vederlo riesumato dal segretario della Fiom è come vedere in Susanna Camusso la transustanziazione di Rosa Luxemburg.

Ma il punto che mi preme sottolineare è un altro. È quel populismo che costituirebbe il minimo comun denominatore tra Landini, Grillo, Salvini, Marine Le Pen, Iglesias e, da ultimo, Corbyn. Premetto che per me populismo non è una “dirty word”, una parolaccia. Però c’è populismo e populismo. È vero: il popolo dei movimenti populisti era il popolo dei “piccoli contro i grandi” (i contadini del buon tempo antico per i movimenti populisti russi e americani di fine Ottocento e del primo Novecento). Mentre per i movimenti populisti europei odierni sono i disoccupati, gli smarriti, i disorientati, gli impauriti dalle trasformazioni sociali. È anche vero che il populismo “è stato un servitore di molti padroni, progressisti e reazionari”, come lo ha definito il politologo inglese Paul Taggart.

Tuttavia, se i nemici del populismo sono le élite al potere e la modernità che schiaccia gli “umili e i semplici” (ricordate Guglielmo Giannini?), qualche distinzione va fatta. Ad esempio, con i pentastellati ci troviamo su un pianeta completamente diverso. Il popolo al quale si appella il loro leader non è il popolo semplice e umile, ma è il popolo sofisticato del web, come hanno acutamente osservato Piergiorgio Corbetta e Elisabetta Gualmini (“Il partito di Grillo”, il Mulino, 2013). Insomma, il M5S non nasce dallo spaesamento di fronte alla modernità, ma dalla modernità stessa. Analogo discorso si potrebbe fare per alcuni partiti e i movimenti che si richiamano alla “Nouvelle Droite” di Alain de Benoist.

Mi fermo qui. Non senza una raccomandazione a tutti noi: quando si usano concetti assai sdrucciolevoli e polisemici come quello di populismo, è meglio andarci con i piedi di piombo, e ricorrere a quella analisi differenziata dei fenomeni politici e sociali tanto cara anche ad Antonio Gramsci. Lo dico soprattutto ai tanti che amano citarlo, spesso a sproposito.

Anche Jeremy Corbyn è un populista?

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