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La Conferenza di Parigi produrrà certamente un accordo. Ma sarà un accordo efficace? Il rischio di un fallimento, seppure non alla deflagrante maniera del summit di Copenhagen 2009, resta sullo sfondo. È concettualmente e praticamente impossibile, infatti, mettere sullo stesso piano, alla ricerca di un accordo unanime e vincolante, 200 nazioni che non sono state, non sono, né saranno mai su questo ipotetico stesso piano: nazioni Ocse, Stati Uniti e Unione europea, piccole isole del Pacifico, Cina, India, Russia, Paesi dell’Africa sub-sahariana e Paesi in crescita dell’America Latina. Se pensiamo che dalla Conferenza di Rio (1992) a oggi le emissioni globali sono cresciute di quasi due terzi, si evidenzia un rischio molto grave: che il pantano in cui si dibatte il negoziato internazionale sia vissuto come un fatto iniziatico e labirintico dall’opinione pubblica internazionale. Società che sono preoccupate dai temi economico-sociali, colgono alcune conseguenze del global warming (inclusa la componente delle migrazioni suscitate da crisi ambientali), ma sono molto più distaccate rispetto ai vertici sul clima di vent’anni fa.

Di qui un paradosso: che la crescente certezza scientifica delle cause antropogeniche dei cambiamenti climatici si misuri con una distanza crescente da parte dell’opinione pubblica mondiale. Per questo la Conferenza di Roma (23 Aprile 2015, Camera dei deputati), promossa dal Centro per un futuro sostenibile, fondazione che da 25 anni si occupa dei temi e delle sfide dell’ambiente globale, ha presentato al governo italiano, al Parlamento e ai rappresentanti della Fao, del governo francese, della Santa sede tre proposte che abbiamo voluto definire innovative – spero – in modo fondato. Di fronte a segnali positivi, come l’accordo Usa-Cina del novembre 2014 e alla conferma di un robusto impegno europeo, le attese politico-diplomatiche, come confermato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici conclusa a Bonn l’11 giugno scorso, sono in stallo. Il numero limitato di Intended nationally determined contributions trasmessi in vista di Parigi; la reticenza di grandi Paesi come l’India; i passi indietro di importanti nazioni sviluppate; la pretesa di altri Paesi di riportare indietro gli orologi della storia agli albori della Rivoluzione industriale (“Se i Paesi sviluppati sono cresciuti anche grazie all’inquinamento della Terra, ora tocca a noi poter crescere e, dunque, inquinare”, passatemi la brutalità, ma sarebbe come reclamare – visti i vantaggi economici dello schiavismo per la gestione della forza lavoro – il ritorno selettivo e legale della schiavitù): tutto ciò è assai preoccupante.

Lasciare poi ben cinque anni di tempo tra l’accordo di Parigi e la sua entrata in vigore, in un contesto di obiettivi disomogenei, renderà proibitivo il raggiungimento dell’obiettivo di contenere l’aumento medio della temperatura globale sotto i 2°C entro questo secolo. Credo che oggi due sfide emergono sopra a tutte. La prima è di far incontrare stabilmente necessità e vantaggi della decarbonizzazione delle nostre società. La sola indicazione della necessità non sarà mai sufficiente, rispetto alle divergenze e ai conflitti economico-finanziari e sociali che animano il mondo e al divario dei tempi tra minaccia climatica a medio termine e oneri delle misure a breve. La risposta possibile, e sempre più credibile, risiede nei numeri della green economy, in termini di salute, qualità della vita, opportunità occupazionali, sviluppo economico e competitività. La seconda è rendere comprensibili alla cittadinanza gli obiettivi del negoziato sul clima. Sofisticatissimi tecnicismi e complicate astuzie diplomatiche allontanano la partecipazione e la fiducia della società civile – e dunque le soluzioni – confinando il processo tra gli addetti ai lavori.

Da qui l’impostazione di tre proposte innovative. Innanzitutto accelerare l’eliminazione dei composti di fluoro, oggetto del Protocollo di Montreal (che è riuscito a fermare le attività industriali dannose per la fascia di ozono stratosferico) che contribuiscono all’“effetto-serra” per circa il 18% rispetto all’anidride carbonica, principale responsabile del global warming.

In secondo luogo, affrontare con ancora maggiore decisione le sfide legate alle foreste, all’agricoltura, al paesaggio e al cibo. Proponiamo di sviluppare infrastrutture verdi in grado di sequestrare carbonio e compensare una parte significativa delle emissioni di gas-serra e dimezzare effettivamente lo spreco alimentare, con un risparmio potenziale di 250 milioni di tonnellate annue di CO2 solo in Europa (tema contenuto nella Carta di Mila-no-Expo).

Infine, rendere il più possibile efficace e tempestivo, sul piano giuridico, l’accordo in preparazione per Parigi, indicando sia l’obiettivo di lungo termine (2°C), sia gli obiettivi intermedi; assicurare la quantificazione, la valutazione e la misurazione aggregata degli obiettivi, il loro riesame periodico e automatico; condividere a livello multilaterale le regole di contabilizzazione; rafforzare gli obblighi e i meccanismi finanziari; rendere più facile il controllo sull’attuazione; prevedere la possibilità di accelerare l’applicazione provvisoria – anche parziale – dell’accordo prima del 2020. Grazie all’elaborazione di autorevoli scienziati, economisti e giuristi, abbiamo proposto un’iniziativa italiana che rafforzi quella europea. Ipotizziamo un’accelerazione, anche asimmetrica, rispetto al difficile negoziato e confidiamo in un ritorno di attenzione, di convinzione e di mobilitazione dell’opinione pubblica.

Parigi, sarà efficace l'accordo alla Conferenza sul clima?

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