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Come ai tempi del cosiddetto Patto del Nazareno con Matteo Renzi, che di giorno criticava ma di notte contribuiva a realizzare, Renato Brunetta è riuscito a conciliare il sì e il no alla sortita di Silvio Berlusconi contro le primarie nel centrodestra per scegliere i candidati sindaci nelle elezioni amministrative dell’anno prossimo. Primarie che pure erano state appena ribadite dal consigliere politico e governatore della Liguria Giovanni Toti in base ad una decisione presa  formalmente l’anno scorso dall’ufficio di  presidenza del partito.

Il capogruppo di Forza Italia alla Camera si è affrettato a  dire a La Stampa che Berlusconi “come sempre, ha ragione”. Le primarie, in effetti, sono manipolabili, come dimostrano quelle spesso controverse e velenose gestite dal Pd. E poi, quando si deve scegliere il candidato di una coalizione è preferibile che lo facciano i leader dei partiti che la compongono, o sono disposti a comporla. Se no, che leader sarebbero?

Ma, se l’accordo ai vertici non si dovesse raggiungere, piuttosto che rinunciare alla coalizione, sarebbe meglio ricorrere, secondo Brunetta, alle pur manipolabili primarie. Magari cercando di farle manipolare il meno possibile, in attesa di una legge che finalmente le disciplini.

Così le primarie di coalizione, cacciate dalla porta da Berlusconi, potrebbero rientrare dalla finestra con le gambe di Brunetta. Che sarebbe pronto tuttavia ad arretrare se tornasse a sentire o ricevere il no dell’ex presidente del Consiglio per la nota e dichiarata ragione: Berlusconi ha “sempre” ragione.

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Il simpatico Chicco Testa ha raccontato ai lettori dell’Unità le circostanze nelle quali è nato il manifesto con 200 firme di imprenditori, professionisti e manager, fra le quali la sua, pubblicato su un’intera pagina del Corriere della Sera a sostegno di Matteo Renzi. Che – ha spiegato Testa – dovrebbe “schiacciare la tavoletta dell’acceleratore”, senza paura evidentemente di sbandare in una curva e finire fuori strada.

L’iniziativa, significativamente assunta alla vigilia di quella che è stata preannunciata come la guerra d’autunno sulla riforma renziana del Senato, è nata e si è sviluppata con la posta elettronica. Per coprire le spese della pubblicità sono stati versati da ogni aderente 140 euro. Che moltiplicato per 200 fanno 28.000 euro. Di cui -ha scritto Testa- “pare che sia rimasto qualcosa”.

Una pagina intera del più diffuso giornale italiano a meno di 28.000 euro, pur con il crollo che hanno subìto le tariffe pubblicitarie per effetto della crisi, si può considerare un affare per i sostenitori del presidente del Consiglio. Qui si sente sapore di sconto, magari a torto ma in curiosa distanza ravvicinata dal cambio della guardia in via Solferino fra Ferruccio de Bortoli, che riteneva Renzi un “maleducato di talento” destinato a farsi male da solo, e Luciano Fontana, più disponibile a fargli credito.

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Che cosa non si riesce a fare, dalle parti dei grillini, per grattare la pancia all’antipolitica in concorrenza con la Lega. Che nel 1994, all’esordio della sua esperienza di governo con Silvio Berlusconi, dopo il cappio sventolato dai banchi di opposizione nell’aula di Montecitorio durante la precedente legislatura, a sostegno della stagione giudiziaria di “Mani pulite”, si distinse con la decisione della giovane presidente della Camera, Irene Pivetti, di chiamare “cittadino”, e non più “onorevole”, il deputato al quale le toccava di dare la parola.

Ora la grillina Tiziana Ciprini e altri cinque colleghi di gruppo hanno presentato una proposta di legge non solo per inibire il titolo di “onorevole”  con multe da 600 a 6000 euro, ma anche per istituire l’obbligo di chiamare “cittadino” il parlamentare, con il linguaggio della rivoluzione francese caro alla Pivetti. Ma un cittadino diverso dagli altri in quanto “portavoce”: aggettivo obbligatorio per ricordare la dipendenza dal popolo.

Il professore ex deputato, e mio carissimo amico, Paolo Armaroli ha ricordato sul Corriere Fiorentino alla Cristini e compagni un precedente storico e politico che dovrebbe indurli a riflettere: “il foglio d’ordine” emesso il 4 marzo 1939 dal segretario del partito nazionale fascista Achille Starace, e rapidamente approvato dalla Camera dei Fasci e della Corporazioni, per abolire il titolo di “onorevole”.

Questa assonanza sarà magari inconsapevole, per difetto di studi, ma anche triste. E politicamente ben  poco onorevole, senza virgolette.

Forza Italia: no alle primarie, anzi ni

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