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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il cameo di Riccardo Ruggeri apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Per sollecitazione di alcuni lettori torno su Uber. Conoscendo bene l’America e l’Europa è stato facile prevedere che il modello di business UberPop avrebbe creato da noi un sacco di problemi, qua leggi e giudici sono ben altro.

In America se sei wasp, ricco, potente, tutto ti è permesso (vedi i Kennedy, Richard Fuld, Steve Jobs, etc.), non parliamo poi se sei anche un CEO, allora puoi compiere reati gravissimi e non andare in galera (too big to jail), col ricatto puoi far chiudere i paradisi fiscali altrui ma tenere aperto il tuo (Delaware). Un mondo da cui stare alla larga. Temo che il caso UberPop, se non viene disinnescato, possa rappresentare una miscela esplosiva per Renzi. Stante l’oggettiva banalità del problema, lo si regolamenti subito. È facile.

La teoria amata dai prufesùr, che loro chiamano disruptive innovation, innovazione distruttiva, è molto chic, ma vana: non capisco perché si debbano esaltare aziende che pretendono di operare con un modello di business in contrasto con leggi e regolamenti in essere. In un paese democratico qualsiasi legge la si può tranquillamente cambiare, ovvero cancellare, purché ciò avvenga nel suo luogo deputato, e secondo le regole della democrazia.

Ho letto le brillanti analisi di Cacciari, Debenedetti, Mingardi, concettualmente sono le mie, per vedere se funzionano provo a declinarle a modo mio. Cosa vieta al Governo decidere una liberalizzazione totale del servizio pubblico? Nulla, se ha i voti, e li ha, lo faccia, come è stato per il Jobs Act. Fin che non lo fa, però Uber è fuori legge, punto. Se fa una nuova legge, deve sanare il passato. I tassisti hanno acquistato delle licenze, se il Governo li espropria di un bene per esigenze pubbliche deve pagare. I Governi han fatto «sanatorie» a favore dei grandi Gruppi industriali costati ai contribuenti cifre folli (ne ricordo alcune che sono delle vere chicche), cosa saranno mai quattro soldi per i tassisti?

Sanato questo aspetto ovvio, tutti gli attori, vecchi e nuovi, si troverebbero nelle medesime condizioni di competitività. Certo, il tassista e il driver devono sottostare alle regole di chi opera nei servizi pubblici, tipo il barista o il cuoco. Come le Asl devono certificare che chi somministra cibi o bevande in luogo pubblico sia sano, così la fedina penale e quella sanitaria di un tassista-driver devono essere certificate. Lo stesso vale per il pagamento delle tasse. A proposito, ben venga la tecnologia Uber. Nel momento in cui Uber, incassato in automatico il compenso della corsa dal cliente, trattiene il suo 20%, pratichi anche una ritenuta d’acconto del 20% (i driver sono per la legge «prestatori d’opera occasionali», non fantasmi come vorrebbe farci credere Uber), che verserà direttamente all’Agenzia delle Entrate, in nome e per conto del driver (questi poi la integrerà in sede di denuncia dei redditi).

Presidente Renzi, su Uber lasci perdere il luddismo, la disintermediazione, la disruptive innovation, la tecnofobia dei tassisti, il problema è banale. Uber, con azioni di lobbying (allerti Cantone), si vuole sostituire alla politica per legiferare secondo il suo modello di business, per trovare sempre più gonzi che comprino, a prezzi folli, i suoi titoli, neppure emessi. I tassisti non vogliono avere concorrenza (meno sono, più guadagnano), i driver vogliono un secondo lavoro, purché sia esentasse («altrimenti non ci stiamo dentro»). Chieda a Padoan di simulare un conto economico-stato patrimoniale di un driver, ci aggiunga i doverosi costi di copertura assicurativa all risks per i clienti trasportati. Se ho fatto bene i conti (della serva), alle attuali tariffe Uber, il business si regge, a condizione che i driver non paghino le tasse. Se poi vuole capire i trend, vada a NYC, studi la VIA, il carsharing che a Manhattan sta mettendo in crisi UberPop e yellow cab (domani i bus?). È un mondo vulcanico quello delle App, dove innovatori e truffatori fornicano sempre più spesso insieme, la politica ha un solo modo per governarlo, essere feroce nel far rispettare: a) la legge; b) le regole fiscali.

Noi liberali d’antan non schiavi di alcuna ideologia o moda intellettuale, pretendiamo che si parli di concorrenza solo se le condizioni date siano rigorosamente le stesse per ognuno dei competitor, non ultima l’imposizione fiscale. Se la futura legge dovesse seguire le linee normative, sanitarie, assicurative, sopra indicate, se Uber su quel 20% di ricavi pagasse le tasse in Italia (senza fingere di farlo altrove), se ai driver fosse imposto l’ovvio pagamento delle tasse (i tassisti le pagano già con gli studi di settore), può star certo, caro Presidente, che noi cittadini comuni ci sentiremmo felicemente disintermediati, oggi da Uber, domani forse da VIA.

Che cosa non mi convince di Uber

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