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Si sta molto discutendo del cosiddetto “patto con gli Italiani” che Matteo Renzi – forse improvvisamente – ha lanciato lo scorso 18 luglio nell’introdurre l’Assemblea nazionale del Partito democratico che si è svolta a Milano.

Si sono fino a ora registrate sostanzialmente due obiezioni: la prima consiste nella sfiducia nei confronti delle stesse possibilità economiche dell’intero patto; la seconda proviene prevalentemente dalla minoranza interna del Partito democratico e tende a porre in evidenza la questione del rapporto tra eguaglianza e fiscalità, a partire dall’imposta sulla prima casa.

La sostanza di queste obiezioni si svolge su due versanti che sembrano essere convergenti ma non coincidenti.

La non credibilità dell’intero progetto appare prevalentemente ancorata al risultato complessivo del progetto medesimo molto più che ai tempi della sua realizzazione; le obiezioni provenienti dalla minoranza interna del Partito democratico attengono invece ad una questione politica di fondo che sembra accantonare in qualche modo le obiezioni di tipo economico-finanzario, per porre in evidenza questioni prevalentemente “identitarie” della sinistra.

Non appare almeno fino a oggi posta con particolare evidenza una sorta di questione politica generale che finisce invece con l’accomunare proprio l’una e l’altra obiezione: che rapporto vi è tra la proposta del “patto con gli Italiani” e il progetto – mai smentito da Renzi – della costruzione del “Partito della nazione”?
Questo sembra infatti l’obiettivo generale che si è posto molto probabilmente fin dal momento delle cosiddette primarie aperte con le quali Matteo Renzi proponeva sostanzialmente di passare da un partito di sinistra a un partito che viene dalla sinistra.

Il Partito della Nazione infatti appare sostanzialmente coerente con la filosofia di fondo che ha ispirato la riforma elettorale non casualmente coincidente con una visione del bipolarismo che ha visto convergere Matteo Renzi da una parte e Silvio Berlusconi dall’altro.

Ma di “partiti della nazione” non ve ne possono essere due, per il fatto stesso che una è la nazione; uno il popolo dei cittadini-elettori.
La costruzione di un Partito della nazione appare infatti del tutto coerente con una lettura della storia nazionale italiana che ha prevalentemente visto un succedersi – dall’Unità d’Italia in poi – di partiti della nazione e non di alternative di governo tutte contenute in un unico disegno costituzionale di fondo.

Partito della nazione è stato molto probabilmente il Partito dell’unità nazionale almeno fino al Concordato del 1929; Partito della nazione è stato molto probabilmente l’allora definito Partito Nazionale Fascista; Partito della Nazione è stato molto probabilmente quello strano coacervo di soggettività che hanno dato vita al Partito democristiano dal 1945 al 1992; Partito della nazione è stato – almeno nelle intenzioni – Forza Italia prima e il Popolo della libertà dopo.

Partito della nazione appare pertanto l’obiettivo politico-strategico al quale punta Renzi in una logica – peraltro costituzionalmente inappropriata – di Sindaco d’Italia.
Non si tratta peraltro con tutta evidenza di una successione di partiti della nazione necessariamente identici l’uno rispetto all’altro.

Quel che sembra invece particolarmente evidente è l’aggregazione intorno a un solo soggetto di altri soggetti necessariamente minori che ad esso si aggregano, quali che siano i motivi dell’aggregazione.
È per questo che non si può parlare di un’alternativa a Renzi limitata a un solo fatto di governo, perché occorre capire fino in fondo in che modo si intende costruire un nuovo Partito della nazione che per sua natura aspira necessariamente alla centralità politico-elettorale, italiana ieri e tendenzialmente europea oggi.

Ed è in questo contesto che va probabilmente vista la stessa decisione di Verdini di concorrere a dar vita sostanzialmente a questa strategia di Partito della nazione che vede nel Patto con gli Italiani proposto da Renzi un punto molto rilevante del processo stesso di costruzione di un siffatto partito.

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