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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Diego Gabutti apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Anche se di omofobia, nella religione cristiana come in tutte le religioni, dall’Islam a Scientology, ce n’è stata sempre in abbondanza, definirla «omofobia paranoica» – come ha fatto il sacerdote e teologo gay Krzysztof Charamsa – è un po’ esagerato. Nel suo caso, del resto, la questione non è l’omosessualità ma il celibato.

Charamsa, anche se non fosse gay ma etero, avrebbe comunque pronunciato un voto di castità. Se vuole che la sua contestazione abbia un senso, è al superamento del celibato ecclesiastico che dovrebbe puntare. Non ne dovrebbe fare un caso personale, chinando la testa, come un fidanzatino di Peynet, sulla spalla del suo compagno.

È un uomo fatto, un teologo, non un adolescente in overdose ormonale, e per dare un senso adulto e razionale al suo «outing» non dovrebbe parlare soltanto per sé ma a nome di tutti i sacerdoti, etero e gay, che hanno il suo stesso problema col celibato. Dovrebbe rivendicare il diritto a una vita sessuale libera e pubblica per tutti i sacerdoti che la vedono come lui, invece d’esibirsi sui giornali e in televisione con un selfie giornalistico che ha un po’ l’aria d’un agguato alle gerarchie vaticane, al momento mezze tramortite dalle aperture (non si sa quanto vere e quanto presunte) di Francesco I ai divorziati, ai gay e persino agli atei, per non parlare dei «migranti» (Ignazio Marino escluso, Papa Bergoglio ha una parola buona per tutti).

Francesco, dev’essersi detto il teologo polacco, ha destato tutte queste speranze e adesso non oserà dire «vade retro» all’«outing» dei sacerdoti gay. Invece il Papa, che «apre alle coppie ferite», non apre ai sacerdoti gay, e il «vade retro» è stato pronunciato: Krzysztof Charamsa lascia tutti i suoi incarichi in Vaticano. Un «vade retro» forte e chiaro, per la verità, era già stato pronunciato prima che il sacerdote polacco Charamsa e la sua metà, decisi a convolare, posassero per i fotografi del Corriere. Negli Stati Uniti, tra un bagno di folla e l’altro, il papa aveva discretamente ricevuto Kim Davis, l’impiegata pubblica che aveva rifiutato di sposare una coppia gay in Kentucky.

Tempo fa il Vaticano aveva platealmente rifiutato d’accreditare un diplomatico francese notoriamente omosessuale. Morale: per ora non è aria per i gay all’ombra del Sacro Soglio. D’abolizione del celibato, come di sacerdozio femminile, non si parla più da decenni. Papa di scuola latinoamericana, papa sociologo, attento ai bisogni del popolo ma tutto sommato indifferente ai diritti del singolo, al pari di tutti i riformatori sociali e anche un po’ di tutti i demagoghi, Francesco I non aprirà in materia di sesso come ha aperto in materia politica. Charamsa, poi, non s’è limitato a porre il problema in astratto, cosa che avrebbe probabilmente persuaso il Papa ad accettare la discussione, ma ha cercato di forzargli la mano, cosa che non tollera nessuno, nemmeno un cristiano qualsiasi, figurarsi un pontefice notoriamente di cattivo carattere, come può testimoniare Ignazio Marino dopo il cazziatone aereo della settimana scorsa.

Charamsa ha sbagliato tutto: il metodo, l’occasione, persino l’obiettivo. Esaltando il proprio particulare, e mettendo sotto accusa il Sant’Uffizio con la testa romanticamente reclinata sulla spalla del suo partner, non ha reso ridicolo solo se stesso, ma ha oscurato il problema un istante dopo averlo sollevato. Di che cosa sta parlando, infatti? Di celibato no, o lo direbbe chiaro. Di nozze gay? D’una speciale licenza per i preti omosessuali, ai quali dovrebbe essere consentito sposarsi in nome del politically correct? D’un ombrello a esclusiva protezione delle minoranze sessuali e tutti gli altri ciccia?

Vi racconto l'autogol di monsignor Charamsa

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