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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Alberto Pasolini Zanelli apparsa su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Di solito le crisi internazionali hanno uno di questi due svolgimenti: la tensione cresce finché non giunge a un bivio, o degenera in guerra o si salva nel corner di un compromesso diplomatico. La Siria sembra voler fare eccezione, da quattro anni abbondanti, da quando è cominciata con una forte dimostrazione di protesta contro il regime, la conseguente repressione, l’intervento straniero, la frantumazione dei fronti, il caos, l’esodo.

Sono passati questi anni, hanno portato 250 mila morti e 4 milioni di profughi e forse a trattare si comincia adesso. Lo lasciano intendere i protagonisti in forme peculiari e litigiose. La Russia lancia un’iniziativa, l’America risponde picche, Mosca e Washington si scambiano critiche veementi come negli anni della defunta Guerra Fredda, poi i loro leader si siedono a un tavolo e cominciano a trattare.

Partono da punti di vista che secondo logica paiono essere inconciliabili. E non affidano la decisione alle armi, bensì a una proposta di mediazione che sarebbe stato logico avanzare subito. E si muovono in modo contraddittorio, seminando nuove incertezze. Putin propone niente di meno che una alleanza con Obama, un’azione militare comune per imporre la pace. Cita anche un precedente un tantino sproporzionato: la Grande Intesa degli anni Quaranta contro Hitler, l’abbraccio marziale fra le democrazie occidentali e Stalin. Cose dell’altro secolo, come se non ci fosse mai stata la Guerra Fredda e Obama risponde come se la Guerra Fredda non fosse mai finita.

Riecco le Superpotenze alla testa di schieramenti contrapposti mentre formalmente discutono di come agire insieme, da alleate. Seminando comprensibile incertezza fra i rispettivi alleati, che si propongono come mediatori ma intanto, per esempio la Francia, cominciano a bombardare la Siria. E quale fra le sue fazioni. Come se non abbondassero i precedenti con le loro conseguenze disastrose. Basterebbe pensare alla Libia, dove un regime e il suo dittatore sono stati abbattuti da un intervento militare straniero. È unanime oggi il giudizio: fu un disastro. Si vuole ripeterlo? Non solo, ma si nega che se l’intervento riuscisse avrebbe anche in Siria conseguenze ancora più disastrose di quelle che vediamo oggi sulle strade di mezza Europa intasate di profughi.

Il quadro è evidentemente contraddittorio. Sembra riaffiorare la strategia che ha fallito per quattro anni in Siria e anche in altri Paesi vicini. Una rivoluzione tentata con un governo autoritario ha condotto a una guerra civile i cui protagonisti, soli possibili vincitori, sono il vecchio dittatore o una organizzazione che lo supera largamente in crudeltà e fanatismo. Sono in pochi in Occidente a capire, o ad ammettere, che le pressioni diplomatiche, le sanzioni, l’assedio al regime di Assad rafforza solamente i tagliagola dell’Isis. Sono in tanti a fingere tuttora di non saperlo. A cominciare da Obama, che però forse è spinto a dichiarazioni sorprendenti dalla coincidenza con la campagna elettorale presidenziale e soprattutto dalla necessità politica di «giustificare» il trattato con l’Iran mostrando grinta di falco in un paese vicino.

Salvo poi accettare non solo una trattativa, ma un negoziato che nasce come una proposta russa e assicura dunque a Putin, se non il successo, l’occasione per rifarsi la faccia come leader mondiale dopo gli interventi militari in Crimea e nell’Ucraina orientale. Non c’è che da pregare di sbagliarsi. Perfino l’Iraq viene invitato a far parte di una alleanza che potrebbe nascere a Mosca. E l’Europa guarda storto Hollande che sembra voler copiare il disastroso Sarkozy della Libia. Con una sola «giustificazione» ripescata nella storia: per una ventina d’anni nel diciannovesimo secolo, la Francia rinunciò alla Marsigliese e la sostituì come inno nazionale con una ballata dal titolo «En partant pour la Syrie», partendo per la Siria.

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