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Con i primi raid aerei di ieri è iniziata la campagna siriana di Vladimir Putin. Ufficialmente si tratta, per ora, di un intervento militare soltanto aereo, finalizzato a combattere la presenza sul territorio dell’Isis.

La linea tenuta dalla Russia si regge di fatto su due binari prestabiliti ed estremamente chiari: difendere un Paese che è alleato storico del Cremlino; sconfiggere militarmente la guarnigione più importante e minacciosa dell’integralismo islamico. Ciò permette a Putin da un lato di ricevere il forte consenso della chiesa ortodossa e dall’altro riaffermare la popolarità della sua leadership interna.

Naturalmente, come ben si sa, nei colloqui a margine dell’assemblea generale dell’Onu di pochi giorni fa è emersa tutta la complessità della situazione. L’operazione russa, concordata con il governo siriano, diventa un puntello forte al regime di Assad, sebbene ufficialmente il ministero degli esteri sovietico continui a smentirlo. Di fatto i bombardamenti hanno già mietuto qualche decina di vittime civili. E il quadro si presenta ancora più grave per la presenza sul territorio dei dissidenti siriani del regime.

La reazione americana è stata per questo inizialmente scettica e poi molto dura. Difficilmente Putin potrà dissolvere l’ambiguità bellica, e ancor più difficile sarà distinguere nitidamente, man mano che si andrà avanti, la lotta all’Isis dal sostegno ad Assad.
John Kerry ha definito, non a caso, ‘un’aggressione’ l’azione che la Russia sta compiendo, soprattutto perché non tocca minimamente il regime di Damasco, ricevendo da esso un esplicito beneplacito. Anche l’Unione Europea, per bocca dell’Alto rappresentante Federica Mogherini, ha sottolineato la necessità di distinguere con maggiore nettezza la lotta al terrorismo, forse divenuta necessaria, dal sostegno alla dittatura.

Il modo concreto per farlo è far sì che Assad sia indotto a coinvolgere l’opposizione interna in un processo di apertura politica alle opposizioni, scongiurando così l’utilizzo del braccio russo in chiave repressiva.
D’altronde il nodo è esattamente questo. Uno degli obiettivi fondamentali per l’Europa è creare una situazione politica che metta fine alle ondate di profughi che arrivano dentro i confini di Schengen, scappando dalla Siria, e arginare l’espansione dello Stato islamico che soltanto oggi ha mandato minacce esplicite persino a Papa Francesco, definendolo un ‘crociato’. Un teatro di guerra non gestito con equilibrio, non coordinato in modo multilaterale, rischia di aggravare l’esodo di massa, non eliminando neanche il problema del fondamentalismo, ingenerando addirittura possibili reazioni a catena. D’altronde, un’eventuale caduta di Assad potrebbe far scivolare la Siria in una nuova Libia, con incognite finanche peggiori al dopo Gheddafi.

Gli appelli del Papa ad una strategia di pace esortante ad imboccare una strada che sia la migliore per permettere la pace. La proposta francese di negoziare una collaborazione con la Russia, in questo senso, rappresenta una buona premessa. Meno convincenti appaiono, invece, le parole del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Questi, infatti, ha espresso giustamente le sue preoccupazioni, non presentando però realmente una soluzione strategica e operativa.

Il punto è che il miglior modo per evitare il peggio consiste nell’allargare la partecipazione militare dei Paesi alla guerra in Siria, non nell’opporsi ad essa. Anche perché, in ogni caso, Putin pare intenzionato ad andare avanti in questa sua iniziativa armata, e non si fermerà certo per i moniti o i timori occidentali.
Non si tratta, in fin dei conti, di allargare il conflitto, ma di governarlo, magari ottenendo alla fine il duplice risultato di arginare l’Isis, rendendo più democratica la Siria, come richiesto alle Nazioni Unite anche da Khoja, leader della coalizione nazionale, essendo presenti nel dopo Assad.

Il fine, ovviamente, è la pace. Il modo di ottenerla, purtroppo, non è evitare la guerra, che già c’è, ma favorire la sua trasformazione da azione unilaterale pro Assad ad intervento intenzionale volto a rendere migliore e più democratica l’intera area mediorientale.
Neanche a farlo apposta, la mancanza di una politica unica di difesa europea si fa sentire come il male più grave. Anche perché la prudenza preoccupata di Washington si giustifica da sé. Mentre l’assenza militare di una posizione unica di Bruxelles rischia, come in passato, di presentare un’Europa frammentata e debole, che ha tante politiche estere quanti sono i Paesi membri, suscettibili di essere utilizzati l’uno contro l’altro dagli interessi contrastanti degli uni e degli altri, non portando a casa nessun risultato sensibile, neanche la pace e la sicurezza.

Come governare il conflitto in Siria

Con i primi raid aerei di ieri è iniziata la campagna siriana di Vladimir Putin. Ufficialmente si tratta, per ora, di un intervento militare soltanto aereo, finalizzato a combattere la presenza sul territorio dell'Isis. La linea tenuta dalla Russia si regge di fatto su due binari prestabiliti ed estremamente chiari: difendere un Paese che è alleato storico del Cremlino; sconfiggere…

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