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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’intervista di Goffredo Pistelli apparsa giorni fa su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi

«Da quando mi sono laureato in Lingua e letteratura araba, nel 1982, Venezia, ho visto nascere e crescere tutto quello che in Italia, ma soprattutto a Milano, avesse l’etichetta di ‘islamico’». Paolo Branca, milanese, classe 1957, docente all’Università Cattolica, è uno degli islamisti più colti in circolazione.

(LE FOTO DEGLI ATTENTATI TERRORISTICI DI ISIS IN FRANCIA, TUNISIA E KUWAIT)

Professore, partiamo dalla percezione che abbiamo, in Italia, di questo Stato islamico. A volte, forse, un po’ distorta.

Intanto cominciamo col dire che Califfato non è, di per sé, una parolaccia, perché equivale a Sacro romano impero, agli Ottoni, agli Asburgo. Che sia nelle mani di tagliagole è una cosa drammatica, un imbarbarimento.

Perché?

Perché non è uno esercito, non è uno Stato, una nazione, nemmeno milizia come sono i Peshmerga curdi. Questi sono dei mercenari, pagati per sparare, per riempire vuoto nelle ex capitali di quel Califfato, ossia Damasco e Bagdad.

Perché nasce l’Isis, professore?

Perché anche là, come in tutto il mondo, viviamo la fase delle grandi ideologie venute meno. E anche là prevalgono gli interessi. In questo caso, pretendono di restaurare qualcosa di nobile e di antico che, nel passato, aveva un suo valore, ma lo fanno nel quadro, pasticciato, di una situazione locale e nazionale.

Eppure nella coalizione anti-Isis ci sono molti Paesi musulmani.

È una coalizione che non funzione proprio per una certa ambiguità di fondo che riguarda molti dei suoi partecipanti.

Quali, professore?

Sono Paesi che, in quanto membri di quell’alleanza, condannano il Califfato, salvo poi sostenerlo, se non addirittura finanziarlo, per i propri scopi: l’Arabia Saudita e molti stati del Golfo Persico, in funzione antisciita ed antiraniana; la Turchia perché teme che i Curdi, avversari dell’Isis sul campo, finiscano per usare quella loro lotta per richiedere l’indipendenza da Ankara.

E invece, le potenze internazionali?

Sono bloccate da veti politici incrociati, che mandano in malore tutta l’area: ora è in ballo Libia, si va aprendo il fronte Yemen. Si rischia che un’area immensa finisca nel caos. Con l’Italia in mezzo, come dimostrano i flussi dei disperati, molti dei quali vengono dai Paesi teatro di questo conflitto, Siria e Iraq in primis.

Però da un Paese arabo e islamico, la Giordania, è giunto nei mesi scorsi un segnale: dopo l’uccisione orribile del pilota di Amman prigioniero, l’aviazione reale ha martellato le posizioni del Califfo infliggendo perdite enormi.

Infatti, ed è stato un segnale interessante, che ha dimostrato come, quando ci sia la volontà di colpire, lo si possa fare. E documentato le cose che le dicevo poc’anzi: i veti incrociati stanno rendendo tutto molto difficile.

Da un punto di vista della storia musulmana che cosa sta accadendo, professore?

Quelli che vediamo sono i frutti della fine di un impero, quello ottomano, cento anni fa, con la Prima guerra mondiale. I Paesi che nacquero, dopo quella disgregazione, sono stati realtà a volte fragili, sorti su confini spesso tracciati per questioni energetiche o geopolitiche.

Beh, in mezzo c’è stato altro…

Certo, il nazionalismo arabo quello dei tempi di Nasser, che però ha perso il suo smalto. E molte repubbliche nate in quegli anni, così come molte monarchie preesisenti se si eccettua Marocco e Giordania, risultano oggi fragili, perché corrotte e sotto il peso di dittature ultradecennali. Le primavere arabe sono state il sintomo che questi Stati sono giunti forse al crepuscolo.

Dopo 100 anni, quasi.

Esatto, dopo quasi un secolo, i nodi vengono al pettine.

E che sta succedendo?

Che le potenze internazionali lasciano che tutta quell’area si disegni su faglie etico-religiose.

Ed è un male?

Il costo che sarà pagato è quello di genocidi e deportazioni, come vediamo appunto in Siria e in Iraq.

In questi anni recenti di crisi mediorientale, abbiamo visto cambiare l’atteggiamento di molti Stati verso le parti in causa: il siriano Bashar Assad, da dittatore verso cui si stava per muovere guerra, è diventato quasi un baluardo contro Al Qaeda.

Né lui né il padre erano e sono bravissime persone, così come non lo è stato Saddam Hussein in Iraq, però…

Però?

Però Iraq e Siria avevano un sistema scolastico e sanitario invidiabili, per quell’area. Essere arrivati ad abbattere Saddam per esportare la democrazia a Bagdad è stato un errore, anche perché poi la gente ha votato per appartenenza etnica e religiosa: Curdi e sunniti a Nord, sciiti a Sud.

In Siria?

In Siria la comunità internazionale non ha favorito una transizione politica, perché anche lì erano cominciate le primavere. In questo modo, da cinque anni, c’è un tale caos per cui oggi non si capisce neppure chi bombardare e dove. In Iraq questa situazione dura da 10 anni e non si vede la fine. Nel frattempo in Libia dobbiamo rimpiangere Mouhammar Gheddafi: è clamoroso.

Anche l’attitudine occidentale verso l’Iran è cambiata: da Paese in cima alla lista degli stati canaglia a barriera anti-Isis. Solo perché sono sciiti e non sono arabi?

La cosa più antica e solida. La Persia, prima di esser islamizzata, era la potenza dell’area. Senza la Persia, anche ai tempi dei Greci, non si poteva controllare quei vastissimi territori. È il Paese degli ayatollah ma non ha avuto solo Ahmadinejad quanto anche presidenti come Khatami, prima e Rouhani adesso. La società civile, inoltre, è molto avanzata, anzi c’è l’impressione che il popolo non sappia come liberarsi di questa potere religioso e che potrebbe liquidarlo prima o poi.

Un bene che l’Iran venga sdoganato, quindi?

Sì, perché potrebbe stabilizzare tutta l’area, istaurando un pluralismo che nell’Islam c’è sempre stato. Così coma sarebbe importante che Paesi molto popolosi, come l’Indonesia e la Malesia, avessero un’altra considerazione.

Non ne hanno?

No, perché noi, abbiamo sempre appoggiato i grandi petrolieri che ci hanno sempre fatto comodo durante la Guerra Fredda, ma l’Urss non c’è più da un pezzo.

Quindi l’Arabia Saudita.

E i Paesi del Golfo che, però, non sono la punta di diamante di questo mondo: hanno i petroldollari ma sono molto arretrati. Nulla a che vedere con l’Egitto, con la sua cultura, anche cinematografica. Oggi nel Golfo hanno le tv, ma sono molto lontani da quei livelli.

Ne deduco che il suo giudizio sugli organismi internazionali non sia positivo…

Infatti, le grandi istituzioni internazionali vivono la loro peggiore crisi. Oggi l’unico leader che sembra poter parlare di questi temi senza rischiare di far ridere per le contraddizioni che si porta dietro è il Papa. E, pur essendo io cattolico, trovo la situazione abbastanza preoccupante.

In questo l’Italia conta poco.

Se lei pensa, fra Nord Africa e Ucraina siamo in mezzo a una cortina di fuoco su cui non abbiamo alcun influsso e sulla quale si incrociano i veti di Russia, Cina e Stati Uniti. Le cose cambieranno quando l’attenzione di tutti questi attori si sposterà vero l’estremo Oriente, dove con la stessa Cina e l’India si giocheranno i futuri equilibri di quel quadrante e forse del mondo. Anzi il processo è già iniziato.

Si diceva dell’Italia…

Come vediamo dalla questione dei profughi, l’Italia sta in mezzo e ne soffre.

Per tornare all’Isis siamo ne siamo bersaglio?

Non escludo nulla, per siamo all’interno di fanatismi e follie difficilmente decifrabili, però ritengo che l’Italia non sia obiettivo, finché sarà una passerella ideale verso altri Paesi dove i gruppi islamici stanno creando nuove centrali.

A quali si riferisce?

Penso alla Francia, alla Gran Bretagna, alla Germania ma anche all’Austria, che oggi sono sede di fondazioni islamiche nell’orbita dei Fratelli musulmani, organizzazione condanna da tutti i Paesi islamici fuorché dal Qatar. In difficoltà con le polizie e i servizi dei loro Paesi di origine, tendono a spostarsi in Europa e l’Italia è appunto un luogo di passaggio, che è meglio non destabilizzare. Infatti molte mosche, in Europa, nell’orbita della Fratellanza.

Anche in Italia, si era scritto.

Sì, come dimostrarono le risse scoppiate, a Milano, due anni fa, durante alcuni venerdì di preghiera fra supporter e avversari di Mohamed Morsi, il deposto presidente egiziano. Episodi che hanno rilanciato il tema della regolamentazione di quei luoghi, spesso evocato ma sempre caduto. Sono temi di cui si ama parlare molto e, a volte in maniera ossessiva, alimentando le paure, ma quando poi c’è da lavorare, per costruire soluzioni, si eclissano tutti.

Facciamo un esempio?

Le carceri. Ho proposto molte volte progetti di formazione per i detenuti marocchini e arabi ma non c’è stato niente da fare. Eppure, come è accaduto anche all’estero, i penitenziari sono spesso luoghi di indottrinamento.

Quindi anziché di preoccuparsi delle infiltrazioni dell’Isis sui barconi faremmo meglio a pensare a quello che accade dietro le sbarre?

Certo. Quanto ai barconi, un’organizzazione come l’Isis per inviare i suoi uomini all’Estero, non ha certo bisogno di infilarli sulle carrette del mare, li infila su un aereo con visto turistico.

(LE FOTO DEGLI ATTENTATI TERRORISTICI DI ISIS IN FRANCIA, TUNISIA E KUWAIT)

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