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Le ultime settimane hanno riproposto le tesi di una stagnazione perenne o di bolle speculative come unico strumento per alimentare la crescita economica. La Cina ha visto crescere la sua terza bolla in sei anni, questa volta di natura finanziaria. Al di là delle isterie finanziarie di questi giorni, non bisogna dimenticare il cambiamento strutturale che sta avvenendo nel Gigante Asiatico: Pechino sta conducendo la propria economia verso un modello di sviluppo di medio-lungo periodo, più concentrato sui consumi.

La bolla cinese alza il velo sulla tenuta dell’economia reale degli altri mercati emergenti e sulla loro domanda di beni e servizi. SACE ha analizzato i primi venti mercati emergenti di destinazione dell’export italiano per comprendere quali geografie siano effettivamente vulnerabili a shock esogeni.

Cina, Arabia Saudita, Emirati e Polonia, che rappresentano il 28% dell’export italiano verso i Mercati Emergenti sono destinazioni importanti per le merci italiane su cui continuare a puntare, al netto delle fluttuazioni congiunturali. Il potenziale export aggiuntivo italiano verso questi quattro Paesi potrebbe superare complessivamente gli 11 miliardi nei prossimi 3 anni, cifra equivalente al 30% dell’export attuale.

Al contrario, Argentina, Sudafrica, Brasile, Russia e Turchia (ma anche, seppur in modo più circoscritto, Cile, Egitto e Malesia) si trovano meno al riparo dalle turbolenze. La maggior vulnerabilità della galassia degli emergenti nel suo insieme può essere comunque gestita attraverso strumenti adeguati di copertura del rischio.

Le ultime settimane hanno riproposto lo spettro della saturazione del mercato, accreditando le tesi di una stagnazione perenne o di bolle speculative come unico strumento per alimentare la crescita economica. La Cina, che negli ultimi decenni ha fatto registrare tassi di crescita a due cifre, ha visto crescere la sua terza bolla in sei anni. Questa volta di natura finanziaria, dopo quella del mercato immobiliare e dell’indebitamento privato e degli enti locali. I tonfi ripetuti della borsa di Shanghai sono risuonati su tutti i principali mercati finanziari.

A ben vedere, però, l’indice di Shanghai era più che raddoppiato nei dodici mesi precedenti, molte aziende quotate capitalizzavano 100 volte il proprio fatturato (con un P/E che tendeva in alcuni casi all’infinito) e circa 6.000 miliardi di USD (tre volte e mezzo il PIL italiano) erano investiti in hedge fund e ETF a carattere speculativo. Gli shock di queste settimane non sembrano però riflettere i fondamentali dell’economia reale e un “aggiustamento” dei listini appariva quantomeno prevedibile.

In un contesto sopravvalutato, i capitali finanziari avevano già cominciato a prendere il largo mesi fa (400 miliardi di USD fuoriusciti dalla Cina nella prima metà dell’anno) e oggi l’attenzione sembra già essersi spostata sulla maggiore mobilità della valuta. Dopo un apprezzamento del 24% nell’ultima decade, il governo cinese ha infatti svalutato lo yuan del 3%. L’azione moderata adottata dalla Banca Centrale cinese è un segnale che va più nella direzione di una maggiore liberalizzazione del regime di cambio che di un sostegno dell’export nel breve periodo, ma a nostro parere il deprezzamento rimarrà contenuto. Una svalutazione eccessiva dello yuan andrebbe infatti contro gli interessi di Pechino, se l’obiettivo di medio termine rimane quello di avvicinarlo al gotha delle valute internazionali, facendolo rientrare nel paniere delle valute del FMI per il calcolo degli Special Drawing Rights.

Al di là delle isterie finanziarie di questi giorni, non bisogna poi dimenticare il cambiamento strutturale che sta avvenendo nel Paese: Pechino deve condurre la propria economia verso un cambiamento sostanziale nel medio-lungo termine, anche al costo di ripercussioni negative nel breve e la transizione verso un modello di sviluppo che punti sui consumi, invece che su esportazioni e investimenti, può rallentare la crescita del PIL. Si tratta di un aggiustamento che può richiedere anche anni e per il quale occorrono determinazione politica e risorse economiche, che la Cina comunque possiede ma che e oggi sta utilizzando in maniera più cauta, soprattutto se paragonate agli ingenti stimoli messi in campo nel 2009. Proprio questo atteggiamento meno interventista da parte delle autorità cinesi e più aperto al mercato ha causato un certo panico sulle piazze d’affari.

Cina: calma, nessuna catastrofe all'orizzonte

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