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E se il vero problema dell’Italia fosse lo scarso potere che Roma ha ormai nei confronti delle Regioni e dell’Unione Europea? La bomba migranti, che rischia di lacerare ancora di più i rapporti tra queste tre istituzioni, sembra confermarlo. I governatori, da una parte, devono mettere mano ai risparmi per evitare di ridurre i servizi essenziali ai loro concittadini dando accoglienza agli stranieri, ma rappresentano sempre una voce quasi incomprimibile delle spese statali; l’esecutivo centrale, dall’altra, per centrare gli obiettivi di bilancio, fa i salti mortali, senza avere quasi voce in capitolo su una partita così cruciale come la suddivisione delle quote per paese dei disperati del mare. Un corto circuito in cui tutti perdono. Ma quando i conti hanno cominciato a non tornare? La data è facile, la ricordano tutti, era il primo gennaio 2002: l’anno della nascita dell’euro e dell’attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione, ora di nuovo in via di revisione.

L’avvento della moneta unica è stato un passaggio storico ambizioso, ma ha anche comportato una netta cessione di poteri alle istituzioni comunitarie. Nello stesso tempo, dentro i confini nazionali, una riduzione di sovranità è avvenuta a favore invece delle amministrazioni regionali, sulla base della nuova suddivisione delle funzioni legislative. Allora si è aperta la forbice tra il governo (Renzi arriva dopo Berlusconi, Letta, Monti e Prodi) e i suoi presidenti locali. Tutti si sono trovati a fronteggiare una situazione sempre più precaria dei trasferimenti delle risorse, proprio nel momento in cui il paese perdeva parte del controllo delle scelte di politica economica. Tredici anni fa si è messa in moto una doppia devoluzione inarrestabile, verso la periferia e verso Bruxelles. E i frutti avvelenati si colgono oggi con il braccio di ferro sull’emergenza migranti Commissione-Governatori-Governo, perché sembra che nessuno li voglia  nel proprio giardino per mancanza di risorse. Le cause di questo scaricabarile vengono però da lontano.

Con la riforma fatta a maggioranza dal centrosinistra nel 2001, mentre lo Stato centrale si consegnava mani e piedi alle rigide regole di bilancio di Bruxelles e di Berlino, inevitabilmente indebolendosi, gran parte del peso della gestione locale si spostava infatti sulle spalle degli amministratori periferici, in un trionfo di federalismo incompiuto. L’esito è stato paradossale. Abbiamo i lander tricolori, ma chi li presiede non ha poteri compiuti dal punto di vista fiscale né sanitario; esiste ancora uno Stato centrale, ma l’esecutivo è stretto nelle maglie degli indirizzi degli organi comunitari. Il governo nazionale conta meno ma paga ancora per tutti. Proprio dal 2001 ad oggi il debito pubblico italiano è passato da 1.620 miliardi (solo il 108% del Pil) a oltre 2.160 miliardi di euro (più del 133% del Pil). Si tratta di 540 miliardi di euro e 25 punti percentuali in più, uno score catastrofico che non si è verificato per caso. E il dato sconfortante è che questa montagna di denaro non è possibile scomputarla regione per regione perché di fatto queste usano soprattutto i trasferimenti. Si ha però qualche indizio. La spesa sanitaria è raddoppiata, passando da 50 miliardi del 1998 a 100 miliardi di euro del 2008, proprio a cavallo della riforma: questo capitolo di bilancio è però ancora tutto a carico dello Stato centrale, che inevitabilmente per sovvenzionare la tutela della salute dei suoi cittadini deve anche indebitarsi. E se si scorrono i bilanci alla voce spese correnti, cioè quanti soldi escono davvero dalle casse e in qualche modo contribuiscono ad alimentare proprio il debito centrale, si scopre che nel 2013 (ultimi dati disponibili della Commissione Antonini), in cima alla lista c’era proprio quella Lombardia (21,7 miliardi) il cui presidente Maroni vuole opporre uno stop ai trasferimenti di persone dai centri d’accoglienza al Nord, seguita dal Lazio (14,9 miliardi), dalla Sicilia (13,3 miliardi), dalla Campania (12,4) e dal Piemonte (11,3), che veti non pongono.  La domanda a questo punto è lecita: chi comanda in Italia, chi spende o chi trasferisce il denaro dal centro alla periferia?

Basta rileggersi con attenzione l’articolo 117 della Costituzione, novellato proprio a inizio millennio, per capire che si sarebbe andati a sbattere. È lunghissima e piena di ricadute finanziarie la lista delle cosiddette materie “di legislazione concorrente” e cioè di competenza esclusiva delle Regioni. Si tratta de rapporti internazionali e con l’Unione Europea; commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro; istruzione (salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale); professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Gran parte di queste mansioni va gestita con i soldi del governo nazionale, che prima di approvare la sua legge di Stabilità deve farla leggere alla Commissione, la stessa che per ora ha insabbiato il nuovo piano di distribuzione dei migranti su tutto il territorio europeo.

Se è vero che senza rappresentanza non può esserci tassazione, a maggior ragione senza veri poteri fiscali non si possono delegare funzioni cruciali del vivere sociale – accoglienza compresa – a mega-organismi dai piedi (e dai bilanci) d’argilla. Lo Stato è diventato una Ferrari che ha carburante per far circolare giusto una Panda, il sistema delle Regioni è l’esatto contrario. Mentre l’Europa ci lascia da soli di fronte ad emergenze planetarie, la benzina, che è la stessa per tutti, sta finendo.

Come finirà il braccio di ferro Stato-regioni (non solo sul debito)

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