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Le dimissioni di Roberto Speranza da presidente dei deputati Pd, dopo lo scontro sull’Italicum con Matteo Renzi, è il segno che una categoria della politica, quella dei mediatori, in questo passaggio non se la passa troppo bene. Non è un compito facile cercare di trovare un equilibrio tra posizioni opposte e, a volte, inconciliabili. Ma in questo momento sembra impossibile.

IL CASO SPERANZA

Umberto Bossi, a questo proposito, usava un’espressione assai calzante: trovare la quadra. Ed è proprio la quadra che Speranza non è riuscito a trovare in questi due anni: eletto capogruppo come rampollo bersaniano dopo le elezioni del 2013, si è trovato a guidare una truppa che si va trasformando in un battaglione renziano. Possiamo solo immaginare come quest’ultimo anno – quello del governo Renzi – possa essere stato per Speranza. Col difficile compito di mediare tra l’esecutivo e una minoranza democrat, di cui lui stesso fa parte, molto agguerrita sulle riforme del premier. Pressioni, sfoghi, trattative continue, lunghe e difficili discussioni su ogni emendamento. Questo è stato il paludoso terreno su cui Speranza ha cercato di tenersi in equilibrio. Fino a mercoledì scorso, quando ha deciso di gettare la spugna. Ora Renzi gli avrebbe chiesto di restare, rinnovandogli la fiducia, ma il giovane deputato lucano difficilmente accetterà.

IL RUOLO DI VERDINI

In questo momento, in cui gli estremismi trionfano e le posizioni si radicalizzano, Speranza non è l’unico mediatore che subisce contraccolpi. In Forza Italia, per esempio, sempre più in ombra è Denis Verdini, il grande tessitore tra Berlusconi e Renzi, il custode del Patto del Nazareno. Se prima viveva praticamente a Palazzo Grazioli e l’ex Cavaliere non muoveva un passo senza di lui, ora i suoi incontri con il leader di Forza Italia sono sempre più sporadici. Nell’ultimo, giovedì scorso, i due hanno pure litigato: venti minuti di incomprensioni e freddure. La caduta di Verdini è stata tanto violenta quanto fulminea: da plenipotenziario del partito, ora non gli riesce nemmeno di piazzare il suo uomo come candidato in Toscana, dove ha avuto la meglio il nome scelto dal duo Matteoli-Bergamini.

L’ESEMPIO DI MATTEOLI

A proposito di Matteoli, anche per lui si registra un fallimento come mediatore. L’ex ministro di An, infatti, ha cercato di fare da paciere nella guerra tra Fitto e Berlusconi. Per settimane Matteoli ha cercato di mediare tra i due, è sceso anche in Puglia per tentare di trovare una soluzione sulle candidature. Ce l’ha messa tutta, il buon Matteoli: per giorni discuteva con entrambi per costruire le premesse di un accordo, ma, poi quando i due si vedevano, puntualmente l’incontro andava male. Così non gli è rimasto che farsi da parte e fare da spettatore alla guerra interna che sta dilaniando il partito e potrebbe portare all’uscita da Forza Italia dell’ex governatore pugliese.

I CASI LEGHISTI

Anche negli altri partiti, però, i mediatori collezionano fallimenti. Roberto Maroni, per esempio, non è riuscito a evitare l’espulsione di Flavio Tosi dalla Lega. I maligni all’interno del Carroccio, in realtà, sussurrano che Maroni abbia usato Tosi in funzione anti Salvini, per poi abbandonarlo al suo destino. E’ innegabile, però, che il governatore lombardo si sia speso fino all’ultimo per evitare l’espulsione del sindaco di Verona. Senza successo.

LE DIMISSIONI DI SACCONI

Un altro mediatore finito nel dimenticatoio è Maurizio Sacconi. Iniziata la legislatura come capogruppo di Ncd a Palazzo Madama, l’ex ministro del Lavoro si è sempre impegnato nel suo partito per trovare punti di equilibrio tra i tre moschettieri centristi – Alfano, Quagliariello e Schifani – spesso in contrasto tra loro. Il suo ruolo lo ha interpretato bene fino all’elezione per il capo dello Stato. Sacconi era contrario a Mattarella e quando Alfano, facendo l’ennesima giravolta pro Renzi, si è accodato su quel nome, ha sbattuto la porta dimettendosi da capogruppo. Al suo posto ora c’è Schifani e di Sacconi si sono perse le tracce.

LUCA LOTTI AVANZA

L’unico mediatore che sembra passarsela bene è Luca Lotti, il gran visir di Palazzo Chigi, il Gianni Letta di Renzi (definizione che altri attribuiscono al manager Marco Carrai). Anche se la definizione non è forse la più adatta. Perché Lotti, più che mediare, è un esecutore della volontà del premier. Più che trattare, impone. Con savoir faire, naturalmente. E con il sorriso sulle labbra. Il sorriso sicuro di chi non è disposto ad accettare un no come risposta.

Come procede la rottamazione dei mediatori (non solo nel Pd)

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