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Mentre i leader sfogliano la margherita per soppesare i vantaggi e i rischi di una candidatura alle elezioni europee di giugno, tutt’intorno c’è un interessante fiorire di riflessioni sulle ragioni diverse che dovrebbero spingerli verso un impegno diretto o che, al contrario, propendono per una ritirata strategica.

Non foss’altro perché il test delle urne rimane comunque un termometro della salute politica e dei livelli di consenso per le leadership e se i politici a parole ripetono sovente di non temere il giudizio degli elettori, è innegabile che tante carriere politiche sono rovinosamente terminate, subito dopo un’elezione. Le prossime europee di giugno non fanno eccezione, anzi, negli ultimi tempi sono una sorta di elezioni di mid-term, perché arrivano puntuali a distanza di un anno dalle elezioni politiche, con le quali fare il tagliando all’appeal dei leader politici, di maggioranza e di opposizione.

Sono diventate una occasione per regolare conti in sospeso, per rompere equilibri e ribaltare posizioni all’interno dei partiti e delle coalizioni. In questo gioco degli incastri, è inevitabile anche che l’attenzione politica e mediatica sia principalmente catalizzata dalle decisioni che prenderanno Elly Schlein e Giorgia Meloni. Entrambe, più di tutti gli altri leader, hanno una quota di validi motivi per calarsi in prima persona nella contesa, che supera di gran lunga la scorta delle ragioni che al contrario sono al servizio di una mancata candidatura.

Al netto delle valutazioni più politiche, c’è spazio per fare alcune considerazioni sul tema scegliendo un approccio diverso che indaga l’opportunità della candidatura a partire dalle narrazioni che identificano e accompagnano le due leader. A tal proposito, c’è una prima ragione che potremmo definire strutturale della tenuta delle rispettive e concorrenziali narrazioni che impone a Meloni e a Schlein di rompere qualunque indugio: seppur in misura e in modo diversi, l’una ha bisogno dell’altra, l’una trova una continua legittimazione, interna ed esterna, nella presenza dell’altra, in un rapporto di mutuo e reciproco antagonismo. E se la forza della narrazione è la cartina di tornasole per comprendere la popolarità di una leadership, allora non c’è occasione migliore di una elezione per testare la tenuta e l’efficacia della propria narrazione.

A questa se ne aggiunge una seconda, che invece ha una valenza maggiormente funzionale rispetto alla prima, ma non meno interessante. Considerando la spinta che l’eco-sistema digitale, e in particolare i social media, hanno impresso al processo di leaderizzazione della politica, il politico è sempre più costretto, volente o nolente, a inseguire una permanente e continua polarizzazione per ergersi giusto al di sopra della frammentazione dell’info-sfera e diventare ogni volta visibile e credibile. E nonostante tutto, è innegabile che per i leader non c’è nulla meglio di una campagna elettorale vissuta da candidati per generare nei pubblici e negli elettori dei picchi consistenti di polarizzazione e di mobilitazione.

Quindi a conti fatti, potremmo dire che alle narrazioni di Giorgia Meloni e a Elly Schlein conviene eccome provarsi in questa faticosa campagna elettorale. Inoltre, alla segretaria dem serve alimentare la dicotomia con la premier anche per rompere l’assedio di Giuseppe Conte che da mesi oramai punta a scalzarla per accreditarsi agli occhi degli elettori come il primo tra i leader alternativi a Meloni. Infine, un’ultima considerazione, giusto per aggiungere una terza motivazione al ragionamento fin qui fatto: in Italia è già successo più volte, vedi Renzi o D’Alema, che un leader pagasse dazio per i risultati non brillanti di un’elezione a prescindere da una loro candidatura.

Due ragioni a favore della candidatura di Meloni e Schlein. L'analisi di Giordano

Alle narrazioni di Meloni e Schlein conviene eccome provarsi in questa faticosa campagna elettorale. Inoltre, alla segretaria dem serve alimentare la dicotomia con la premier anche per rompere l’assedio di Conte che da mesi punta a scalzarla come leader dell’opposizione. Infine, in Italia è già successo più volte che un leader pagasse dazio per i risultati non brillanti di un’elezione a prescindere da una loro candidatura… L’analisi di Domenico Giordano

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