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Con una lettera formale inviata ieri al Congresso, Barack Obama ha esteso l’emergenza nazionale sulla Libia per un altro anno. Per il capo di Stato Usa, la situazione nel Paese nordafricano “continua a porre un’inusuale e straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti“. Ma se Tripoli versa in questo stato, lamentano alcuni osservatori, è in parte a causa della strategia della Casa Bianca.

UN PAESE ALLO SBANDO

Nonostante il lavoro diplomatico dell’Onu, la Libia è minata sempre più da una sanguinosa guerra civile, nella quale si è insinuato lo Stato Islamico. Mentre la fazione islamista di Tripoli e il governo legittimo rifugiatosi a Tobruk si facevano la guerra sostenuti da potenze regionali (i primi da Turchia e Qatar, i secondi da Egitto ed Emirati Arabi), i jihadisti hanno avuto modo di rafforzarsi in “silenzio”, conquistando terreno. Mentre l’Occidente ha voltato per troppo tempo gli occhi dall’altra parte.

UNA VALUTAZIONE ERRATA

Com’è potuto accadere? Secondo Foreign Affairs, tutto ebbe inizio il 17 marzo del 2011, quando il Consiglio di sicurezza dell’Onu approvò una risoluzione che autorizzava un intervento in Libia, con l’obiettivo di tutelare i manifestanti che chiedevano democraticamente la fine della dittatura. Sette mesi dopo, ad ottobre, dopo una campagna militare estesa con il supporto occidentale, le forze ribelli conquistarono il Paese e Muammar Gheddafi venne assassinato. Sulla scia immediata della vittoria, spiega Alan Kuperman, i funzionari americani erano trionfanti e quello libico venne salutato come “un modello di intervento”. Obama cantò vittoria: “Senza un solo uomo americano sul terreno – disse – abbiamo raggiunto i nostri obiettivi“. Washington credeva di aver centrato tre obiettivi in un sol colpo: dare linfa alla Primavera araba, evitare un genocidio simile a quello avvenuto in Ruanda ed evitare che la Libia divenisse una potenziale fonte di terrorismo. Queste valutazioni, come poi hanno dimostrato le cronache, si sono rivelate errate.

GLI ERRORI DI OBAMA

Per la rivista americana, l’errore non va ricercato nella gestione del post-intervento. Bensì, il modo migliore per assicurare un futuro migliore alla Libia, sarebbe stato quello di “non intervenire affatto“. Anche durante le proteste contro il Ràis, i civili pacifici non erano mai stati realmente in pericolo. Gli Stati Uniti e i loro alleati, prosegue, avrebbero dovuto offrire una chance al successore che lo stesso Gheddafi aveva identificato, suo figlio Saif al-Islam, educato in Occidente e considerato relativamente liberale. L’intervento della Nato ha invece fatto scivolare il Paese nel caos, aumentando a dismisura il numero dei morti; abbassando ancor più lo standard dei diritti civili; spianando la strada ai movimenti terroristi di matrice islamica; consengnando la nazione alle ingerenze esterne; e accelerando il collasso dell’economia, perché la produzione di petrolio, sua linfa vitale, è stata ridimensionata dal conflitto civile.

LE CONSEGUENZE POLITICHE

Ma per Foreign Affairs il danno causato dalla rimozione non ragionata di Gheddafi, si estende anche oltre i confini dello Stato. “Nel 2003, il dittatore decise volontariamente di rinunciare al suo programma nucleare e di armi chimiche e consegnò i suoi arsenali agli Usa. Otto anni dopo, la sua ricompensa è stato un cambio di regime a guida americana, culminato con la sua morte violenta“. Questa esperienza ha notevolmente complicato il compito di convincere altri Stati a fermare o invertire i loro programmi nucleari.  L’intervento in Libia può aver favorito anche la violenza in Siria, perché i ribelli contro Bashar al-Assad avrebbero “aumentato la loro violenza nell’estate del 2011 per attirare una reazione simile” di aiuto da parte della Nato. Infine, la missione nel Paese nordafricano ha avuto anche l’effetto di irritare ulteriormente un attore importante come la Russia, che aveva dato in sede Onu la propria disponibilità alla creazione di una fly-zone per proteggere i civili, mentre ha poi denunciato di aver assistito a bombardamenti occidentali che “non avrebbe mai autorizzato“.

LA STRATEGIA DI WASHINGTON

Oggi, dopo l’esperienza degli anni passati, la Casa Bianca guarda invece da “lontano” ciò che accade a Tripoli, non facendosi coinvolgere troppo nonostante la crescita dello Stato Islamico anche nel Paese nordafricano. In una conversazione con Formiche.net, l’ambasciatore americano presso la Nato, il generale Douglas Lute, ha sottolineato che la soluzione alla crisi libica dovrà essere politica. “Non è escluso – ha spiegato – che a seguito di un accordo tra le parti raggiunto grazie alla mediazione dell’Onu, la Nato possa invece contribuire, se le verrà chiesto aiuto, a soluzioni per mantenere la sicurezza”. Mentre l’ambasciatrice americana in Libia, Deborah Jones, ha scritto sul Libya Herald che la matassa libica dovrà essere sbrogliata dai libici stessi o al massimo da un accordo tra attori regionali. Una linea ben diversa da quella adottata in Siria e in Iraq. Come mai?Dopo tanti anni e diverse guerre – ha rimarcato lo storico e analista di geopolitica e intelligence Edward Luttwak -, gli Usa si sentono responsabili del destino di Baghdad. Non è la stessa cosa per la Libia, dove sono stati trascinati da un intervento scellerato di Francia e Regno Unito“. Una posizione che, per molti osservatori, spiega in modo ancora più chiaro come mai l’Onu e la Nato abbiano “deciso di non decidere” su un intervento militare, tenendo ancora aperte le porte della diplomazia.

Foreign Affairs: ecco tutti gli errori di Obama in Libia

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