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L’economia digitale e i capitali cinesi per far volare il piano Juncker, operativo dalla fine dell’estate. E magari far decollare il rapporto tra UE e Cina sul tema investimenti. Non sono in pochi a crederci, o a sperarci. Nell’UE, dove il fondo EFSI creato dal piano Juncker serve proprio ad attrarre capitali privati e “pazienti” (come banche straniere) per rilanciare la crescita nel vecchio Continente. E in Cina, che si trova a gestire la transizione da paese importatore netto a esportatore netto di capitali e a dover diversificare, dai tradizionali ambiti dell’agricoltura e delle infrastrutture fisiche, al digitale e all’innovazione.

Se ne è parlato il 4 giugno a Bruxelles, al seminario “China, the digital economy and the EU investment plan” organizzato dall’associazione ChinaEU al Comitato delle Regioni. Sala affollata, con rappresentanti diplomatici, funzionari della Commissione, dell’europarlamentom e delle regioni, rappresentanti delle telecom europee e delle quattro banche più importanti della Cina. Che poi, coincidono con le più grandi al mondo, secondo la classifica di Forbes. Per avere un’idea dei numeri di cui si parla, basti pensare che la Bank of China è la numero uno al mondo per fatturato (166 miliardi di dollari), profitti (44 miliardi), asset (3.320 miliardi) e valore di mercato (278 miliardi).

I delegati della Bank of China e delle altre tre (ICBC, China Construction Bank, Agricultural Bank of China) hanno ascoltato funzionari di alto livello della Commissione europea spiegare come funzionerà il piano Juncker, che dopo l’ok politico definitivo del 28 maggio, sarà operativo da settembre-ottobre nella parte di assistenza tecnica e dalla fine del 2015 con il portale degli investimenti. Sono stati presentati anche i progetti di infrastrutturazione digitale di diverse regioni europee. Per l’Italia c’era la Toscana, che ha illustrato i tre progetti regionali sul Cloud computing per la pubblica amministrazione, sulla mobilità integrata e l’altro per utilizzare i big data. “Questo è solo l’inizio”, assicura l’organizzatore dell’evento Luigi Gambardella, presidente di ChinaEU e consigliere del comitato esecutivo dell’ETNO (l’associazione che rappresenta gli interessi degli operatori delle telecomunicazioni), che conferma come “una possibilità” per i cinesi di “creare un fondo ad hoc per partecipare al piano Juncker”.

Anche perché, se i cinesi si presentano con credenziali come il successo di marchi hi-tech quali Xiaomi, Alibaba, Lenovo, Coolpad, Huawei e ZTE, sono anche consapevoli di poter imparare in molti settori chiave. “Siamo interessati non solo all’ICT, – ha scandito l’ambasciatrice Yang Yanyi, capo della missione cinese presso l’UE – ma anche alla modernizzazione dell’agricoltura, città intelligenti, crescita verde e cambiamenti climatici e per questo guardiamo con interesse all’Europa e alle opportunità di partecipazione ai finanziamenti offerte dal piano Juncker. Finora i nostri investimenti all’estero si sono concentrati soprattutto nei paesi vicini dell’Asia, ma è il momento andare oltre”.

Aperture che sollevano anche qualche timore nella vieta Europa. Così, nel corso del seminario la rappresentante della regione della Bassa Austria Ilse Pender-Stadlemann ha domandato se non possiamo contare su “soldi europei per progetti europei”. “I flussi finanziari del fondo EFSI – ha ricordato Alessandro Carano, prima alla BEI e ora consulente per il piano Juncker alla Commissione – dovrebbero venire per la maggior parte dal settore privato da tutto il mondo, senza nessun pregiudizio”.

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