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Le svalutazioni da Qe producono comunque effetti non disprezzabili. Le banche hanno meno sofferenze, gli investitori si sentono meglio, le casse pubbliche raccolgono più soldi dalle imposte sui profitti aziendali e sui capital gain, i tassi reali scendono e il servizio del debito pubblico diventa meno oneroso per i governi. Tutto questo, benché positivo, appare più una stabilizzazione che il segnale di un’inversione di tendenza.

Se è così, allora la conclusione da trarre non è che Qe e svalutazione non servono a nulla e tanto vale ritornare ai cambi di un anno fa, bensì quella opposta. Ovvero che il deprezzamento di lungo termine di euro e yen non è ancora terminato e che quella che si apre è semplicemente una fase di tregua nelle grandi tendenze al recupero del dollaro e all’apprezzamento delle borse in Europa e Giappone. È vero, la Yellen ha dedicato tre quarti della sua conferenza stampa a parlare del dollaro. Lo ha fatto da economista e non da policy-maker che ne può influenzare il corso (i cambi sono competenza del Tesoro e la linea di confine nelle competenze è sacra e inviolabile), ma ha fatto comunque capire che il dollaro forte comincia a pesare sull’economia americana.

C’è una certa strumentalità in questo (la Fed non ha molta voglia di alzare i tassi e la forza del cambio le dà un buon appiglio per rinviare) ma c’è anche l’idea che una fase di tregua darebbe agli Stati Uniti la possibilità di riprendere fiato. Parlare però di un’inversione di tendenza sul dollaro (e quindi sulle borse europee) sembra prematuro per ragioni di breve, medio e lungo termine. Nel breve, a impedire un decollo dell’euro, c’è la vicenda greca, ancora più spinosa di quanto si pensasse e che si protrarrà come minimo ancora un paio di mesi.

Nel medio c’è la considerazione che i germogli di accelerazione europea sono appena spuntati. Le grandi imprese esportatrici tedesche, che dovrebbero essere tra i maggiori beneficiari dell’euro debole, stanno facendo a gara, in questi giorni, per gettare acqua sul fuoco degli entusiasmi delle borse e trasmettere l’idea che i miglioramenti visibili sugli utili sono molto più modesti di quanto mercati ed analisti si attendono. Insomma, in nessuna serra si abbassa la temperatura quando i germogli sono appena spuntati e non ancora fioriti.

Solo fra sei mesi si potrà fare un primo bilancio di questa accelerazione, in passato troppe volte annunciata e mai verificatasi. Ma proprio a settembre, verosimilmente, inizierà il ciclo di rialzo dei tassi americani che darà ulteriore supporto al dollaro. Nel lungo e lunghissimo periodo va poi considerato che l’Europa, con demografia stagnante, invecchiamento rapido, welfare pesante e riforme strutturali solo di facciata ricorrerà alla monetizzazione del debito via Qe in modo semipermanente o permanente (come il Giappone), mentre l’America tenderà a ricorrervi solo in caso di crisi.

Non inganni il fatto che, fino ad oggi, l’Europa è stata restia a violare il tabù. Il Qe crea dipendenza, soprattutto nei più deboli.

Estratto dalla newsletter Il Rosso & il Nero

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