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Il mese di gennaio ha segnato un passo importante nell’implementazione del Cbam, il meccanismo di adeguamento delle emissioni alla frontiera con cui l’Unione europea vuole proteggere il proprio mercato e spingere i Paesi terzi a decarbonizzare le proprie industrie. Adesso chi esporta verso l’Ue certe classi di prodotti deve comunicare alle autorità doganali le emissioni legate alla produzione, pena una lieve multa. Il periodo di prova è iniziato a ottobre 2023 e si estende fino al 2026, anno in cui le capitali europee inizieranno a tassare le emissioni terze come già tassano quelle interne.

Per l’Ue, il meccanismo è una strada verso l’adozione globale di misure decarbonizzanti. Ma per una lunga serie di partner commerciali, dagli alleati più stretti ai rivali più acerrimi, è una minaccia. Non solo alla Cop28 non si è raggiunto un accordo per omologare lo scambio di carbon credits, che avrebbe favorito la creazione di meccanismi comparabili di tassazione delle emissioni; nel testo finale si sottolinea che “le misure adottate per combattere il cambiamento climatico, comprese quelle unilaterali, non dovrebbero costituire un mezzo di discriminazione arbitraria o ingiustificabile o una restrizione mascherata al commercio internazionale”.

Quelle parole sono frutto dei timori dei Paesi che guardano al Cbam con astio. Ci sono gli Stati Uniti (con cui l’Ue sta negoziando un compromesso dal sapore geopolitico), e poi ci sono Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, membri originari dei Brics, che in questa e altre Cop hanno guidato l’assalto al progetto europeo. Senza dimenticare la Turchia, che ha chiesto a Bruxelles l’esclusione dal sistema, e una lunga serie di Paesi in via di sviluppo.

Tutti questi Paesi vedono la tassa come un’imposizione protezionistica, fortemente unilaterale, o addirittura un’arma commerciale. E per quelli del Sud globale in particolare il Cbam è una forza distorsiva del mercato che potrebbe colpirli in modo sproporzionato – proprio loro che devono ancora industrializzarsi e che meno hanno contribuito alle emissioni storiche dietro all’effetto serra. Uno squilibrio che rischia non solo di far deragliare la spinta alla decarbonizzazione dell’Ue, ma anche le sue relazioni internazionali.

È lampante il caso dell’India, con cui Bruxelles (come anche Washington) sta stringendo legami sempre più stretti per portarla sempre più nell’orbita occidentale. Secondo il Global Trade Research Initiative, la tassa si tradurrà in un dazio del 20-35% sulle esportazioni indiane di acciaio, alluminio e cemento, attualmente tassate a meno del 3%. Oltre un quarto delle esportazioni indiane di acciaio, ferro e alluminio (pari a 8,2 miliardi di dollari) è destinato al mercato unico europeo. E per metterla come ha fatto l’esperto di commodity Gianclaudio Torlizzi, l’entrata in vigore del Cbam “rappresenterà di fatto una dichiarazione di guerra commerciale”. Entro il 2034, rileva, solo il dazio “sarà quasi pari al prezzo medio dell’acciaio made in India nel periodo pre-Cbam”.

Anche altri Paesi subiranno pesanti perdite, scrive The Hindu. Secondo il Center for Global Development, il pil del Mozambico diminuirebbe di circa l’1,5% solo a causa delle tariffe sulle esportazioni di alluminio. E dunque un numero crescente di ong climatiche stanno facendo pressione affinché i proventi della Cbam, che secondo i piani europei dovrebbero andare ad alleviare l’impatto della transizione sulle fasce più deboli della popolazione, possano essere utilizzati anche per aiutare le economie in via di sviluppo. In fase di stesura anche i legislatori europei avevano considerato di dirottare una parte dei proventi del sistema, ma quelle provvigioni non sono state accolte nell’accordo finale.

La Commissione è consapevole del problema e intende condurre una revisione completa del sistema Cbam entro il 2027, considerando anche il suo impatto sulle esportazioni dei Paesi meno sviluppati. Il sistema già prevede che l’Ue fornisca assistenza tecnica ai Paesi in via di sviluppo per conformarsi al Cbam e afferma che il sostegno finanziario per la decarbonizzazione in questi Paesi dovrebbe provenire dal bilancio europeo. Come, su che base, e con quale modello di distribuzione dei fondi non è ancora dato sapere: questo richiederebbe un livello di visione strategica in politica estera che l’Ue ha faticato a dimostrare negli ultimi anni.

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