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Elisabeth Braw, senior fellow dell’Atlantic Council, presenterà il 25 marzo prossimo, alle ore 18, al Centro Studi Americani di Roma, il suo ultimo libro, “Goodbye Globalization” (Yale University Press). È un viaggio verso la fine della globalizzazione e un nuovo mondo regionalizzato.Ne parlerà con l’ambasciatore Francesco Maria Talò e Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali, dopo i saluti di Roberto Sgalla, direttore del Centro Studi Americani, e Paolo Messa, non resident senior fellow dell’Atlantic Council (e fondatore di Formiche), con la moderazione di Barbara Carfagna, giornalista Rai.

Finita la globalizzazione, che cosa dobbiamo aspettarci?

Innanzitutto, la globalizzazione non si è conclusa del tutto, ma si sta evolvendo rapidamente. L’erosione della globalizzazione deriva dalla mancanza di fiducia tra i governi, una tendenza esacerbata da Paesi come la Cina e la Russia che utilizzano la globalizzazione come arma a loro vantaggio. Questa tattica incentiva le aziende a mantenere una presenza in questi Paesi, anche se con l’intenzione di ridurvi le operazioni. Anche la perdita di fiducia della gente comune alimenta le difficoltà della globalizzazione. Di conseguenza, quello a cui assistiamo oggi è uno spostamento verso la regionalizzazione. L’Occidente sta intrattenendo scambi commerciali significativi, soprattutto con le nazioni alleate, favorendo un senso di familiarità e di condivisione di valori. Pertanto, suggerisco di etichettare questo paradigma emergente come “regionalizzazione”.

La condivisione, o meno, di valori sta giocando un ruolo in queste divisioni?

L’assenza di valori condivisi è un elemento fondamentale. La convinzione di una convergenza globale verso i principi democratici, prevalente negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, si è rivelata oltremodo ottimistica. Gli sviluppi recenti, in particolare con Paesi come la Russia e la Cina, rivelano forti divergenze ideologiche. Di conseguenza, la regionalizzazione enfatizza i partenariati commerciali con nazioni che condividono valori simili, anche se non necessariamente identici.

Anche l’India, dunque?

L’India sta emergendo come il vincitore. Essa sta vivendo uno sviluppo significativo, che offre una seconda opportunità di crescita. Storicamente, è stato un partner commerciale e un hub operativo molto interessante, ma le complessità hanno spesso scoraggiato molte aziende. La Cina, invece, grazie al suo controllo centralizzato, si è dimostrata efficiente e ha attirato operazioni di ampio respiro. Tuttavia, con l’affievolirsi del fascino della Cina, le aziende cercano alternative e l’India è entrata in scena. Questo cambiamento sottolinea l’importanza per i Paesi occidentali di promuovere le relazioni con l’India. Sebbene l’India non sia perfettamente in linea con i principi occidentali, il suo impegno per la democrazia e la sua posizione aperta sono sufficienti. Queste qualità costituiscono una solida base per l’espansione dei legami commerciali e di scambio.

Nei giorni scorsi la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato un disegno di legge che obbligherebbe la società cinese ByteDance a cedere TikTok a un attore non cinese per evitare il divieto negli Stati Uniti. Siamo davanti al dilemma tra preoccupazioni per la sicurezza nazionale e preferenze degli utenti. Che cos’è cambiato negli ultimi anni?

Questo dilemma evidenzia un profondo cambiamento nelle priorità. Solo pochi anni fa, l’idea di vietare una piattaforma come TikTok sembrava poco plausibile. Tuttavia, le sempre maggiori preoccupazioni per la sicurezza dei dati, in particolare quando c’è di mezzo la Cina, hanno stravolto questa visione. La decisione di dare priorità alla sicurezza nazionale rispetto alle preferenze individuali sottolinea il cambiamento del panorama della globalizzazione, segnando un significativo allontanamento dalla normalità precedente.

Come dovrebbe adattarsi l’intelligence occidentale in risposta a queste dinamiche internazionali in evoluzione?

Al di là delle agenzie di intelligence, spetta ai cittadini e alle entità riconoscere la natura pervasiva dello spionaggio, in particolare da parte di nazioni ostili come la Cina e la Russia. La vigilanza e la cooperazione sono fondamentali per mitigare le minacce alla sicurezza nazionale. Inoltre, la promozione di meccanismi di condivisione delle informazioni tra aziende e comunità scientifiche rafforzerebbe le difese contro lo spionaggio economico e tecnologico.

Considerando la crescente collaborazione tra istituzioni accademiche cinesi e occidentali, come si può salvaguardare la sicurezza della ricerca?

La protezione della proprietà intellettuale e della ricerca richiede misure proattive. L’educazione dei ricercatori sui rischi potenziali e l’istituzione di responsabili della sicurezza della ricerca all’interno delle università sono passi fondamentali. La collaborazione rimane parte integrante del progresso scientifico, ma è necessario esercitare cautela per evitare che le partnership accademiche vengano sfruttate per finalità malevole.

Che fare, dunque, con gli Istituti Confucio?

La presenza degli Istituti Confucio è un residuo della globalizzazione, inizialmente vista come un’attività di scambio culturale. Tuttavia, abbiamo sottovalutato le intenzioni della Cina, che ha utilizzato questi istituti per i propri scopi. Questa constatazione mette in discussione l’idea della loro natura benevola. A questo punto si pone la domanda: che cosa si dovrebbe fare? Mentre alcune entità li hanno ritenuti inappropriati e li hanno cancellati man mano, altre sostengono il valore dello scambio culturale. Tuttavia, uno scambio efficace richiede che entrambe le parti si impegnino in modo positivo e benevolo. Quando una delle due parti lo sfrutta per fini meno nobili, l’integrità di questo scambio viene compromessa. Gli Istituti Confucio ci ricordano il passato apice della globalizzazione e la necessità di un’attenta considerazione negli impegni internazionali.

Alla luce di questo nuovo scenario globale, è necessario rivedere la composizione del G7 allargandolo?

Il G7 svolge bene il suo ruolo. Il G20, invece, ha alcuni membri che non sono particolarmente amici dell’Occidente. Per questo, è opportuno valutare forum complementari che riflettano l’evoluzione del panorama globale. Proposte come il D10 o il D11, che comprendono democrazie al di là dei tradizionali membri del G7, offrirebbero la possibilità di migliorare la cooperazione e il coordinamento, in particolare per affrontare le sfide contemporanee. Un nuovo forum dovrebbe aggiungersi al G7, non sostituirlo.

In questo contesto di regionalizzazione, quale ruolo può giocare l’Italia?

L’ingresso relativamente tardivo dell’Italia nella globalizzazione potrebbe ora rivelarsi un vantaggio. La sua economia diversificata, composta in gran parte da piccole e medie imprese e aziende a conduzione familiare, è meno dipendente dalla Cina rispetto ad altri Paesi occidentali. Il potenziale dell’Italia di fungere da hub strategico per le aziende occidentali che stanno attuando strategie di re-shoring sottolinea la sua importanza in un ordine globale in forte evoluzione.

Perché i ritardi dell'Italia nella globalizzazione sono ora un vantaggio. Parla Braw (Atlantic Council)

Conversazione con la senior fellow dell’Atlantic Council, che presenterà il suo ultimo libro “Goodbye Globalization” il 25 marzo al Centro Studi Americani. In un’era segnata dal ritorno delle divisioni, la prudenza italiana verso la globalizzazione potrebbe rivelarsi un vantaggio, dice

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