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In Grecia si riparte, come se fosse un dopoguerra. Il nuovo governo deve fare i conti con i lasciti di un’austerità fiscale che ha raggiunto, in tutto e per tutto, i suoi scopi: il bilancio pubblico è finalmente in pareggio, come lo sono i conti correnti con l’estero. E’ stato abbattuto un sistema socioeconomico che cresceva costantemente a debito, pubblico e privato, finanziato dall’estero. Questo stock è stato finalmente stabilizzato: ora ammonta a circa 580 miliardi di euro (230% del Pil). A valori costanti, il Pil è crollato dai 210 miliardi di euro del 2008 ai 162 miliardi dell’anno scorso, tornando ai livelli del 2000.

Se la disoccupazione è passata dal 8,2% del 2007 al 25,7% dell’anno scorso, gli investimenti sono crollati dal 26,7% al 13,8%: la relazione inversa tra questi due ultimi dati dovrebbe essere il punto di partenza del dibattito politico, che invece si concentra prevalentemente sulla necessità di procedere alla ristrutturazione del debito pubblico, detenuto per oltre l’80% da istituzioni internazionali e governi stranieri. Alcuni non vogliono neppure sentirne parlare, perché significherebbe tornare al vecchio andazzo: lo stesso programma elettorale del neo premier Tsipras, che prevede un aumento delle pensioni e dei salari minimi, così come il ripristino della universalità dell’assistenza sanitaria, sarebbe un pessimo segnale. D’altra parte, anche lo spazio finanziario derivante da una moratoria sul debito non sarebbe sufficiente per riavviare un processo equilibrato di sviluppo, che crei occupazione senza incidere nuovamente sui conti esteri e sul bilancio pubblico.

La partita del debito insostenibile è già stata vinta, elettoralmente: nessun Paese riesce a ripagare una somma così elevata. Ma il punto cruciale, per tutta l’Europa, non è più neppure stabilire quanto sia necessario condonarne alla Grecia ed individuare chi se ne dovrà fare carico: anche l’Italia, che di debito ne ha fin troppo di suo, è tra i creditori per circa 40 miliardi.

La disoccupazione è stato il vero driver delle elezioni greche, che ha spostato il consenso al di là degli schieramenti politici tradizionali, mentre il debito pubblico è stato solo il bersaglio grosso, che ha nascosto la mancanza di strategie e di soluzioni per una crescita equilibrata.
Eppure, il Patto per l’euro, che risale al 11 marzo 2011, prevedeva che «Per assicurare che la crescita sia bilanciata e diffusa nell’intera area dell’euro, strumenti specifici e iniziative comuni saranno individuati per promuovere la competitività nelle regioni che si trovano più indietro». Non se n’è fatto nulla: il Piano Junker è ancora oggi sulla carta ed il Qe è appena fresco di inchiostro. Nel frattempo, sono cresciuti i debiti pubblici ed i disoccupati, non solo in Grecia. Sono i soliti dettagli della Storia, forse, ma dopo il voto di Atene sarà difficile continuare a nasconderli sotto il tappeto.

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