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Vi sono tanti aspetti che non convincono della sentenza n.70 con la quale la Consulta ha dichiarato illegittima la norma, contenuta nel decreto Salva Italia del 2011, che ha manomesso l’istituto delle perequazione automatica delle pensioni per gli anni 2012 e 2013.

Tra i tanti elementi discutibili uno merita una particolare sottolineatura: se alla sentenza fosse data integrale applicazione (come rivendicano le opposizioni e i sindacati), si determinerebbe, al di là degli effetti economici considerati insostenibili, una conseguenza di carattere sociale, quanto meno controversa sul versante dell’equità.

In sostanza, la Corte, pur adducendo, nelle motivazioni della sentenza, argomenti a tutela delle pensioni medio-basse, finirebbe per restituire il ‘’maltolto’’ proprio a quelle più elevate che, a suo giudizio, sarebbero in grado di fare fronte comunque alla sfida dell’adeguatezza. Sorge il dubbio che non si tratti di una svista o di un eccesso di zelo, ma di un preciso ‘’avviso ai naviganti’’, a partire dalle tante chiacchiere in libertà che da tempo prefigurano, in modo assai disinvolto, operazioni ardite a scapito dei diritti previdenziali acquisiti. Intervenendo nell’ambito del dibattito in corso a tal proposito, i ‘’giudici delle leggi’’ potrebbero, allora, aver parlato ‘’a nuora perché suocera intenda’’.

Ma, prima di procedere oltre, è il caso di ripassare un po’ di storia. Quando viene introdotto in Italia il calcolo retributivo ? Bisogna risalire agli ‘’anni ruggenti’’ della fine del decennio ’60 (quando ormai si avvertiva il calore dell’autunno) e alla legge n.153/1969. Grazie a quella riforma venne introdotto il metodo retributivo con “l’aggancio” alla retribuzione dell’ultimo periodo di vita lavorativa.

Nel 1990 tale metodo venne esteso anche ai lavoratori autonomi sia pure con requisiti più severi, mentre nell’impiego pubblico e in alcuni regimi speciali (trasporti locali, elettrici, telefonici, ecc.) erano vigenti regole di maggior privilegio. In talune categorie (magistrati, ecc.) era prevista persino la c.d. clausola oro ovvero il collegamento della pensione alla retribuzione del lavoratore pari grado in servizio.

Di per sé il metodo retributivo (che, da noi, sostituì il previgente metodo contributivo impostato sulle c.d. marchette) non è necessariamente ‘’premiale’’. Se nel calcolo della pensione si considerassero, infatti, le retribuzioni di tutta o di un lungo arco di vita lavorativa (come accade nella grande maggioranza dei Paesi europei) il sistema potrebbe mantenere un adeguato equilibrio tra contributi e prestazione.

Il guaio del ‘’retributivo all’italiana’’ fu un altro: che il periodo di riferimento venne fissato inizialmente negli ultimi tre anni, aumentati, poi, quasi subito a cinque (mentre nel pubblico impiego la pensione coincideva sostanzialmente con l’ultima retribuzione percepita). Ora, dopo la riforme, si prende a riferimento la retribuzione pensionabile degli ultimi dieci anni.

Allora, si trattò, in pratica, di una misura che consentì immediatamente un salto di qualità dei trattamenti pensionistici a favore dei lavoratori del boom economico (spesso immigrati dal Sud o provenienti dall’agricoltura) in possesso di una posizione previdenziale discontinua e travagliata: gli anni di lavoro precedenti gli ultimi cinque sarebbero contati per determinare l’anzianità di servizio, mentre la retribuzione pensionabile considerata era unicamente quella dell’ultimo periodo lavorativo che, nell’organizzazione produttiva, retributiva e sociale di quei tempi, era generalmente il migliore. In un quarto di secolo di riforme i privilegi più vistosi sono stati aboliti e le regole sono state rese uniformi, spesso con gradualità eccessiva o solo per il futuro.

Nemmeno la riforma Dini-Treu del 1995 – dettata parola per parola dai sindacati al Parlamento, il quale arrivò persino a sospendere il voto finale in attesa dell’esito del referendum promosso dalle Confederazioni sindacali – volle modificare completamente l’impostazione della riforma del 1969 – anch’essa fortemente voluta dai sindacati e dalla sinistra – rivolta ad assicurare ai pensionati un trattamento equipollente alla retribuzione media percepita nell’ultimo periodo della vita attiva. In questi ultimi giorni è tornata ad emergere l’idea (cara al presidente dell’Inps Tito Boeri e non esclusa dal ministro Poletti) di rideterminare, con il calcolo contributivo, i trattamenti più elevati liquidati con il metodo retributivo, sempre che il loro importo non sia ‘’giustificato’’ dai versamenti effettuati.

Ma un’operazione siffatta sarebbe ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale ? Crediamo che un grande ‘’No’’ si possa leggere proprio nelle motivazioni della sentenza n.70. I sostenitori di questa tesi partono dal presupposto che il sistema retributivo abbia in sé una ‘’rendita di posizione’’ non meritevole di tutela. Ma se così è, perché il ‘’crucifige’’ dovrebbe agire solo a carico delle pensioni più elevate? Non è, poi, il modello contributivo che di per sé penalizza le pensioni dei giovani; è la loro condizione di lavoro caratterizzata da un accesso tardivo nel mercato e una permanenza instabile e saltuaria che rende precaria anche la loro posizione contributiva. Mettendo a confronto i due sistemi non è vero, poi, che tutti i vantaggi stiano nel retributivo e tutti gli svantaggi in quello contributivo.

Nel primo sistema, infatti, i lavoratori effettuano i versamenti sull’intera retribuzione percepita, ma il rendimento è pari al 2% per ogni anno di servizio fino a 45mila euro di stipendio. Per le quote eccedenti, invece, l’aliquota è decrescente proprio per ‘’penalizzare’’ le retribuzioni più elevate. Nel retributivo, inoltre, la pensione è sottoposta ad un tetto massimo di 40 anni: quelli lavorati in più subiscono il prelievo sulla retribuzione, ma ‘’non fanno’’ anzianità. Nel regime contributivo, invece, contano tutti i versamenti effettuati: chi ha lavorato più a lungo percepisce una pensione migliore, perché il montante accreditato viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione più elevato in relazione all’età di pensionamento.

I lavoratori con retribuzioni maggiori, inoltre, versano i contributi soltanto su di un massimale attualmente di circa 100mila euro l’anno (al di sopra non sono previste ritenute e, ovviamente, le quote ulteriori non sono considerate retribuzione pensionabile, ma sono incentivate ad approdare in una forma di previdenza privata a capitalizzazione). Non è un caso che per ben due volte (con un decreto all’inizio degli anni 2000 e con una norma nella legge di stabilità del 2015) il legislatore sia intervenuto a proibire o a scoraggiare il diritto di optare per il calcolo contributivo, allo scopo di evitare l’erogazione, in determinate circostanze, di trattamenti più generosi.

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