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Già considerato due anni fa, a torto o a ragione, come la sfortunata “carta segreta” dell’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani per la prima successione a Giorgio Napolitano, ora il giurista e ormai ex giudice costituzionale Sabino Cassese rischia di diventare un’altra sfortunata carta, questa volta però del Corriere della Sera, nella corsa al Quirinale.

E’ proprio a lui, anziché al costituzionalista abituale e organico Michele Ainis, o allo storico e politologo Ernesto Galli della Loggia, che il direttore uscente Ferruccio de Bortoli ha affidato con tempismo a dir poco sospetto l’editoriale del più diffuso giornale italiano sui “compiti” che attendono il nuovo presidente della Repubblica e, più in generale, un’analisi del “ruolo” del capo dello Stato. Un ruolo che Cassese auspica torni ad essere più di “equilibrio” istituzionale, sul modello di Luigi Einaudi, che di “indirizzo” politico, cui Napolitano ma anche alcuni dei suoi predecessori sarebbero stati in qualche modo costretti dalla crisi dei partiti e dal sostanziale fallimento delle leggi elettorali seguite all’abolizione referendaria del vecchio metodo proporzionale.

Grazie anche alle modifiche in corso alla legge elettorale chiamata Porcellum, depurata delle parti tagliate l’anno scorso dalla Corte Costituzionale, Cassese vorrebbe che il capo dello Stato fosse liberato dal compito improprio di supplenza delle forze politiche. E potesse rimettersi solo alle scelte degli elettori per nominare il presidente del Consiglio, come i sostenitori del sistema elettorale maggioritario speravano, sino a rendere pleonastico il rito delle consultazioni al Quirinale.

Una nuova legge elettorale, se mai le Camere dovessero veramente riuscire ad approvarne una, per quanto Cassese ottimisticamente non mostri nel suo editoriale di dubitarne, oltre ad alleggerire di fatto i compiti del capo dello Stato, dovrebbe garantire quella “stabilità” istituzionale e politica mancata anche nella cosiddetta Seconda Repubblica. In effetti, negli ultimi ventidue anni, come ha ricordato l’ex giudice costituzionale, si sono avvicendati tre capi dello Stato, quindici governi e sette elezioni politiche, contro le quattro o poco più che sarebbero state necessarie se non si fosse dovuto ricorrere a scioglimenti anticipati delle Camere per effetto di crisi politiche insolubili.

A 79 anni compiuti in ottobre, quanti ne aveva curiosamente Napolitano alla sua prima elezione al Quirinale, il campano Cassese potrebbe apparire in continuità anagrafica e regionale rispetto al presidente uscente. Ma la continuità finirebbe qui, essendo Cassese di provenienza tutta giuridica, amministrativa e accademica, contro quella interamente politica di Napolitano.

E’ capitato, in verità anche a Cassese di fare il ministro, in particolare della Funzione pubblica, ma come tecnico in un governo prevalentemente tecnico: quello presieduto fra il 1993 e il 1994 dall’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Che da presidente della Repubblica nel 2005 lo avrebbe nominato giudice costituzionale, sempre con criteri prevalentemente tecnici e professionali, più che per gli orientamenti politici di sinistra.

Con questi precedenti, con la sua contrarietà o diffidenza verso elezioni anticipate, ricavabile dall’editoriale sul Corriere della Sera, e con l’auspicio di un ritorno del ruolo del capo dello Stato a quello originario, esplicitamente espresso nello stesso editoriale, Cassese potrebbe in realtà apparire un candidato ideale al Quirinale per un Parlamento come l’attuale, la cui stragrande maggioranza teme comprensibilmente un ricorso ravvicinato alle urne, ma anche per un presidente del Consiglio e segretario del Pd come Matteo Renzi. Il cui protagonismo politico è in potenziale conflitto con un nuovo presidente della Repubblica tentato da una interpretazione estensiva del proprio ruolo. Tuttavia Cassese potrebbe risultare danneggiato proprio dalla sostanziale sponsorizzazione del Corriere della Sera emersa con il suo editoriale.

Anche a prescindere dai rapporti non certo eccellenti fra Renzi e il direttore uscente del Corriere, molto severo con lui, il tifo giornalistico in genere non porta fortuna ai candidati quirinalizi. Lo sperimentò sulla propria pelle nel 1992 Giovanni Spadolini, che pure era allora presidente del Senato e sembrava favorito come soluzione “istituzionale” nella corsa al Colle dopo l’eccidio mafioso a Capaci, traumatico per il Parlamento impegnato in quei giorni ad eleggere il successore di Francesco Cossiga.

Portato per motivi di convenienza partitica a preferire la promozione dell’allora presidente democristiano della Camera Oscar Luigi Scalfaro, che avrebbe lasciata libera la presidenza di Montecitorio per un uomo del Pds-ex Pci, già individuato in Giorgio Napolitano, sapete come il segretario post-comunista Achille Occhetto liquidò la candidatura del povero Spadolini? Egli disse ai compagni orientati a suo favore, fra i quali c’era – in verità – anche Napolitano, che il partito non poteva lasciarsi imporre il candidato da un giornale. In quel caso non si trattava del Corriere ma della Repubblica diretta da Eugenio Scalfari, schieratosi appunto per Spadolini. Che, dal canto suo, era talmente convinto dell’elezione da preparare il suo discorso d’insediamento e giuramento come presidente della Repubblica. A interromperne penosamente la stesura fu l’annuncio, a mezzo stampa, del sì di Occhetto a Scalfaro.

Ecco come il Corriere della Sera sfoglia e brucia i candidati al Quirinale

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