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Riceviamo e volentieri pubblichiamo. Primo di una serie di tre articoli.

Negli ultimi 15-20 anni sono intervenuti in materia previdenziale (pensioni dirette e di reversibilità) una serie di provvedimenti di legge di chiaro significato anticostituzionale, ed ulteriori se ne prospettano, sempre illegittimi od addirittura improponibili.

I provvedimenti hanno riguardato soprattutto le limitazioni della perequazione automatica delle pensioni in godimento, i cosiddetti “contributi di solidarietà” sulle pensioni di maggiore importo, la decurtazione delle pensioni di reversibilità in rapporto al reddito del superstite beneficiario.
Vediamo le ragioni che consentono di qualificare i provvedimenti anzidetti, come le ipotesi di ricalcolo delle pensioni retributive in atto applicando ad esse, ora per allora, le regole del calcolo contributivo, come sicuramente illegittimi sulla base di principi fondamentali di ordine costituzionale.

Le pensioni devono essere “adeguate alle esigenze di vita”, concetto tipicamente dinamico ed incrementale, nonché proporzionate alla quantità e qualità del lavoro svolto dal pensionato durante la vita attiva, essendo la pensione null’altro che una retribuzione differita (artt. 38 e 36 della Costituzione).

Ed invece, rispetto ai criteri di indicizzazione delle pensioni di cui alla legge 448/1998 (già peggiorativi rispetto a quelli del D.Lgs. 503/1992 e della legge 335/1995), vale a dire rivalutazione al 100% dell’indice ISTAT per gli importi fino a 3 volte il minimo INPS, al 90% per gli importi tra 3 e 5 volte il minimo INPS, al 75% per gli importi oltre 5 volte il minimo INPS, sono intervenuti successivamente, già nel 1999 e 2000, e poi ancora negli anni 2008, 2012, 2013, nonché 2014, 2015 e 2016 a legislazione vigente, una serie di provvedimenti che hanno annullato completamente (anni 2008, 2012 e 2013), o comunque fortemente ridotto l’entità della perequazione annuale delle pensioni in atto, sempre e solo a danno delle pensioni di importo lordo superiore a 3 volte il minimo INPS.

Ad aggravare la situazione anzidetta, bisogna considerare:
– che già gli indici ISTAT sono sottostimati e non specifici per i pensionati e che la rivalutazione è sempre posticipata rispetto al momento dell’insulto inflattivo;
– che la mancata indicizzazione della pensione, anche solo per un anno, riverbera i suoi effetti negativi in modo permanente sugli aventi diritto perché riduce la base su cui calcolare la rivalutazione per gli anni successivi;
– che il “contributo di solidarietà” (oggi del 6%, del 12%, del 18%), che viene a gravare sul valore lordo delle pensioni rispettivamente oltre 14 volte, 20 volte e 30 volte il minimo INPS, anche qualora non venisse considerato quale intervento di natura tributaria (quale in effetti è, come per la mancata indicizzazione o la sua riduzione), ha comunque natura sostanzialmente espropriativa, dal momento che viene a determinare una vera e propria ablazione di quote formanti oggetto di diritti quesiti.
Come effetto di quanto anzidetto, assistiamo alla situazione paradossale secondo cui:
– la indicizzazione delle pensioni di alcune categorie di pensionati è piena (titolari di importi lordi fino a 3 volte il minimo INPS);
– la indicizzazione per i titolari delle pensioni di importo superiore a 3 volte il minimo INPS è annullata, o comunque fortemente ridotta;
– infine, per i soggetti gravati dal tributo di solidarietà, non solo non opera alcun meccanismo di rivalutazione, ma addirittura l’importo della loro pensione subisce una decurtazione anche in termini nominali rispetto all’entità della pensione correttamente liquidata secondo le regole vigenti all’atto del pensionamento.

Tutto ciò si è ancora aggravato a seguito delle leggi 214/2011 (Monti-Fornero) e della legge 147/2013 (Enrico Letta), con inasprimento del contributo di solidarietà e con peggioramento (almeno per il triennio 2014-2016) del meccanismo di indicizzazione, che ora avviene in una unica misura percentuale (e ridotta per le pensioni superiori a 3 volte il minimo INPS) sull’intero importo spettante, anziché secondo il miglior criterio precedente, che diversificava l’incremento secondo le varie fasce di importo, anche se in misura progressivamente calante in rapporto al valore crescente dell’assegno pensionistico.

In concreto, i titolari di pensione oltre 3 volte il minimo INPS, già in quiescenza nel 2007, nel corso dei 9 anni successivi (2008-2016) hanno visto il loro assegno pensionistico ridursi in termini reali (attraverso la mancata indicizzazione o la sua riduzione, intervenute in 6 dei 9 anni, cioè il 66% del periodo) di non meno del 15-20%, ed in modo definitivo e permanente.
Tutto ciò è contrario ai principi costituzionali sanciti dall’art. 3, che sacralizza l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Inoltre, poiché i prelievi sulle pensioni (deindicizzazione, contributi di solidarietà) hanno certamente significato e natura tributaria e poiché i pensionati penalizzati sono già soggetti su tali redditi ad imposizioni fiscali ordinarie e progressive, in analogia a quanto avviene per le altre forme di reddito, nei loro riguardi vengono ad essere platealmente disattesi i principi costituzionali di cui agli artt. 53 e 97 della nostra Carta, che impongono in materia tributaria la partecipazione della generalità dei cittadini circa il concorso alle spese pubbliche e la progressività del prelievo, nonché il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
Tutti i principi costituzionali prima richiamati sono stati ribaditi nelle sentenze 30/2004, 316/2010, 223/2012 e 116/2013 della Corte costituzionale.

(1/continua)

Michele Poerio, Presidente nazionale FEDER.S.P.eV.

Carlo Sizia, Comitato direttivo FEDER.S.P.eV.

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