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L’opinione pubblica italiana in questi giorni è fortemente impressionata dalla crisi libica, per le immagini di terribile crudeltà che vengono dal quel paese e per il suo sentirsi antimurale nel mediterraneo di un’Europa distratta da altre priorità, vedi l’Ucraina.

E’ sintomatico che nel corso della “Munich Security Conference” del 6, 7 e 8 febbraio scorso, dove si è discusso ai massimi livelli di problematiche di sicurezza a livello globale, alla Libia sia stata riservata solamente una fugace menzione.

Il clima di adesso ricorda per molti versi quello dell’inizio 2011, nell’imminenza dell’intervento internazionale in Libia, allorché si avvertiva l’urgenza di reagire e di fare comunque qualcosa. Una maggiore ponderatezza, allora, avrebbe certamente giovato, così come giova oggi non assumere decisioni che si possano poi rivelare affrettate. Alla domanda pressante, che fare in Libia? La risposta prosaica ma assolutamente sensata da dare ora è: “calma e gesso”. La ragione è che nonostante il profluvio di notizie e di immagini che ci giungono quotidianamente la realtà sul terreno rimane poco intellegibile.

Sappiamo di una società assuefatta da secoli a sopravvivere in una gestione paternalistica della cosa pubblica e che, abituata da decenni a dipendere da elargizioni governative, è poco incline a lasciarsi coinvolgere nelle violenze delle quali non è per la maggior parte partecipe. Sappiamo ancora di una molteplicità di attori locali e sponsor esterni in competizione tra loro per la gestione del potere e delle risorse energetiche del Paese; una sorta di conflitto fra bande fuori controllo e continuamente oscillanti nelle alleanze a seconda degli interessi di parte.

Ma non sappiamo oggi in Libia chi veramente rappresenta chi. Di conseguenza non riusciamo ad individuare degli interlocutori affidabili abbastanza. Dell’autoproclamato Stato Islamico conosciamo la sua micidiale strategia comunicativa ma in realtà non ci è chiara abbastanza la sua consistenza, la sua reale capacità militare, i suoi collegamenti internazionali, il suo radicamento sul territorio e la sua presa sulla società libica. Non conosciamo abbastanza quanto questo fenomeno sia nuovo e quanto non sia invece una mutazione di sempiterne frange islamiste oggetto di repressione già dai tempi di Gheddafi.

Stanti queste condizioni l’invio di forze militari in Libia risulta assolutamente improponibile, sia per scopi di mantenimento di una pace che non si è nemmeno tendenzialmente delineata, sia di interposizione fra schieramenti a macchia di leopardo. Semplicemente mancano gli spazi, non soltanto negoziali ma soprattutto operativi, per inserirvi una presenza esterna per una riconciliazione nazionale e per ricostruire le strutture statali. Il fatto che la situazione in Libia sia così complicata da richiedere ponderazione nelle decisioni e pazienza in attesa di evoluzioni chiarificatrici del quadro esistente non implica che l’Italia al momento non possa fare nulla. Tutt’altro.

Innanzitutto deve esercitare una maggiore assertività in tutti i “fora” multilaterali internazionali: l’ONU in primis, ma anche la NATO e la EU. A livello ONU deve continuare, e semmai aumentare, il sostegno dell’Italia allo sforzo di Leon per l’avvio di un dialogo fra le parti in lotta in Libia. Come corrispettivo deve essere pretesa l’inclusività a tutti gli attori: dai rappresentanti delle fazioni in lotta -nessuno escluso- ai rappresentanti delle istituzioni, dalle municipalità fino agli esponenti più significativi e più influenti della società civile libica. In questo esercizio di dialogo e di pacificazione dovranno essere coinvolti anche la dirigenza della Senussiyya e i suoi esponenti più accreditati presso la società libica.

Sempre in ambito ONU l’Italia deve agire per una risoluzione urgente volta ad anemizzare il sostegno alle fazioni in lotta mediante embarghi mirati a escludere ogni possibile supporto esterno. Questa deve prevedere fra l’altro la sorveglianza sulle esportazioni di idrocarburi, il controllo delle riserve finanziare giacenti all’estero nonché i relativi flussi finanziari. La lotta al terrorismo internazionale dovrebbe fungere da catalizzatore per raggiungere il consenso in ambito del Consiglio di sicurezza e dovrebbe consentire di riannodare quei rapporti che sono stati compromessi con l’attuazione della risoluzione 1973 (che ha consentito l’intervento armato in Libia nel 2011).

A livello NATO appare necessario invocare quanto prima da parte dell’Italia l’articolo IV del trattato. Ai sensi di questo articolo ogni Alleato che si sente sottoposto a minaccia può sottoporre la situazione all’ordine del giorno del Consiglio Atlantico per la definizione di una politica comune. Non vi è dubbio infatti che il caos libico può riverberarsi negativamente sulla sicurezza del nostro paese e del fianco sud dell’Alleanza. Infine a livello europeo l’Italia deve agire per superare la visione minimalista che ha ispirato “Triton”. Occorre infatti un disegno politico di più ampia portata che porti ad una autentica condivisione europea di oneri e responsabilità nella gestione dei flussi migratori, che con tutta evidenza sono un fenomeno non certo contingente e di breve durata.

Analoga assertività deve essere esercitata dall’Italia nei rapporti bilaterali con tutti gli attori e sponsor esterni alla Libia, che possono avere una qualche influenza sulle fazioni in lotta. Con tutte le cautele del caso è necessario infine non interrompere il lavoro politico e diplomatico sin qui svolto sul terreno libico dall’Italia. La storia comune, il fatto di essere stata l’ultima rappresentanza diplomatica a chiudere e gli interessi italiani tuttora presidiati in quel paese testimoniano una rete di contatti e di collegamenti che devono essere mantenuti e coltivati con tutti i mezzi disponibili: dall’intelligence fino alla “suasion” economica, per riannodare il tessuto sociale di quel paese.

La maggiore assertività dell’Italia, per essere efficace, deve però essere accompagnata da una assoluta linearità nella politica estera che eviti le stonature e le dissonanze che recentemente si sono evidenziate. Una siffatta politica deve poi essere sostenuta da un largo supporto bi-partisan delle forze politiche presenti in parlamento. L’obiettivo finale per l’Italia infine dovrà essere una risoluzione ONU che consenta, quando le condizioni lo renderanno possibile, l’ingresso in Libia di una forza internazionale di sostegno alle ricostituite istituzioni libiche. Tale forza in nessun caso dovrà avere una caratterizzazione occidentale e tantomeno italiana. Il sostegno occidentale e quello italiano ovviamente saranno necessari ma dovranno essere forniti rispettando la connotazione fondamentalmente araba e africana che questa forza dovrà avere.

Agendo altrimenti si susciterebbero antichi sentimenti anticolonialisti, mai sopiti, con l’effetto sicuro di compattare le fazioni in lotta, non verso obiettivi di ricostruzione nazionale, ma contro l’occidente e l’Italia in particolare.

Generale Stefano Panato, ICSA

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Libia, perché l'Italia può invocare anche la Nato

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