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«Assai più che semplice titolare di un rapporto di lavoro, il prestatore di oggi e, soprattutto, di domani, diventa un collaboratore che opera all’interno di un “ciclo”. Si tratti di un progetto, di una missione, di un incarico, di una fase dell’attività produttiva o della sua vita, sempre più il percorso lavorativo sarà segnato da cicli».

Basterebbero queste parole di Marco Biagi per misurare la reale modernità del Jobs Act e, in particolare, il tentativo di ricondurre la quasi totalità delle forme di lavoro al contratto subordinato a tempo indeterminato. Allo stato, l’unica tipologia contrattuale ad avere il destino segnato pare dunque essere il job sharing, insieme all’associazione in partecipazione. Colpevole di innocenza, a quanto pare. Perché poco o per nulla applicato nella prassi almeno stando alle fonti ufficiali. Eppure, dice il professor Michele Tiraboschi – “il lavoro condiviso è il lavoro del futuro, dove sempre più due o più persone si troveranno ad adempiere a una unica obbligazione lavorativa non solo in funzione di esigenze personali e di vita ma anche in ragione della necessità di condividere professionalità, competenze e mestieri”.

LA POMPEI DEL LAVORO

L’impianto di attuazione della legge n. 183/2014 che si sta delineando – sottolinea la vice-presidente della Commissione di certificazione dell’Università di Modena e Reggio Emilia Flavia Pasquini – “ci ricorda una sorta di “Pompei” del lavoro, una modernità cristallizzata in un tempo glorioso che però non c’è più, quello così bene rappresentato dai “Tempi moderni” di Charlie Chaplin. Da allora (1936) è passato quasi un secolo, ma di questo non pare essersi accorto il Legislatore, che ancora richiama il lavoro subordinato come forma comune di rapporto di lavoro”.

IL COMMENTO DI MASSAGLI

Il presidente di ADAPT, Emmanuele Massagli, ricorda che “costruire una riforma sulla centralità del contratto a tempo indeterminato significa non cogliere la molteplicità dei mestieri e delle professioni che si stanno sviluppando”.

LE PAROLE DI TIRABOSCHI

A ciò si aggiunge che il governo non interviene sui veri nodi che causano il problema principale del mercato del lavoro italiano: la disoccupazione giovanile. “Il nuovo contratto a tutele crescenti rischia di generare assunzioni di lavoratori con esperienza, senza incentivare quelle per i settori più svantaggiati. Inoltre non intervenendo sui tirocini, il governo lascia scoperta una delle principali cause di abuso nel mercato del lavoro”, ricorda Tiraboschi, che aggiunge: “Un buon inizio sarebbe far funzionare Garanzia giovani, ma sappiamo che oggi solo il 3% dei giovani iscritti hanno ricevuto una offerta concreta, esattamente come il 3% dei lavoratori che viene intermediato dai centri per l’impiego”.

Francesco Seghezzi 
Responsabile comunicazione Adapt

Jobs Act, un decreto che guarda al passato?

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