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Nel febbraio del 1991 il conte Pietro Marzotto, felice come un bambino, annunciò l’acquisto della casa di moda tedesca Hugo Boss da parte del suo gruppo. Una griffe, e anche tra le più note del settore, finiva non in pasto ai soliti colossi internazionali del lusso ma a un’azienda tessile di Valdagno dall’illustre storia.

L’operazione fece scalpore, ma vista dal Veneto aveva una valenza del tutto differente che non da Milano, dove pure il conte era di casa tra le blasonate stanze di Mediobanca di cui era socio. Veneto caput mundi? Di sicuro le aziende venete i loro prodotti erano abituate a venderli all’estero. Stavolta però non si vendeva niente, si comprava. E che acquisto. Con il colpo messo a segno in Germania Pietro aveva soddisfatto a tre sue intuizioni. La prima, banale, è che in un mondo che si andava globalizzando (il Muro di Berlino era caduto solo due anni prima) la dimensione, in barba al “piccolo è bello” tanto mitizzato nel Nord Est come modello vincente di sviluppo, è un fattore determinante. La seconda: che l’abbigliamento per il tessile è un po’ come nell’informatica il software per l’hardware, si sarebbero fatti molti più soldi col primo che col secondo.

La terza: una simile operazione serviva a smitizzare il capitalismo familiare, introducendo in un contesto di proprietari gestori la fondamentale distinzione di ruoli tra manager e azionista. Di lì a poco, con una certa perfidia, Pietro spiegò che nel consiglio d’amministrazione del gruppo non c’era posto, eccezion fatta per
lui, per nessun altro Marzotto. A un giornalista che gli fece osservare come la dinastia ne contasse oltre 50, la risposta fu stentorea: «Evidentemente nessuno di loro se lo merita».

Ho rivisto Pietro moti anni dopo, all’inaugurazione della blasonata drogheria milanese Peck che aveva rilevato con il pingue assegno di “buona uscita” con cui il resto della famiglia si sbarazzò della sua presenza. Simone Filippetti racconta nel primo capitolo del libro le varie peripezie che portarono alla clamorosa uscita di scena, dunque non mi soffermo. Dico solo, che tra piatti di risotto e prosecco, Pietro sembrava un uomo appagato e per nulla incline a indugiare sul passato. Per anni, anche visto il ruolo in Confindustria e un fallito matrimonio con il Corriere della sera di cui fu sponsale Enrico Cuccia, fu l’industriale veneto più di sistema. Ma, come la stragrande maggioranza degli imprenditori suoi conterranei (in primis i Benetton) non rinnegò mai il suo attaccamento alla terra d’origine, fedele in questo alla tradizione dell’“impresa sociale” ereditata da suo padre e ancora prima dal nonno.

Questo per dire che, quando si guarda alle gesta di questi capitani d’industria, non bisogna mai dimenticarsi il doppio registro della loro personalità. Tanto sono, o sono stati, visto le alterne fortune, innovatori e aperti al mondo, altrettanto sono rimasti legati al loro microcosmo non facendo mai mancare l’attenzione al territorio da
cui, in ultima istanza, cercavano riconoscimento e consensi. Con un battuta, si potrebbe dire che il capitalista del Nord Est , magari a capo di una multinazionale che lo teneva per molto tempo lontano dai cancelli della sua azienda, ha sempre voluto essere profeta in patria.

La famiglia Benetton, in questo, è un lampante esempio. Nei quattro fratelli di Ponzano, come in molti loro colleghi, resta una vena di provincialismo che li porta a guardare altrove con diffidenza. Prima di diventare un protagonista delle privatizzazioni volute da Romano Prodi, con l’acquisto di aziende come Autogrill, Autostrade e Gs con cui hanno prepotentemente imboccato la via della diversificazione, i Benetton erano refrattari, persino intolleranti, alla logica dei salotti buoni. Ovvero a quel capitalismo di relazione che Mediobanca sosteneva da par suo a colpi di patti di sindacato e partecipazioni incrociate. Poi anche loro si accorsero di essere entrati in un contesto di sviluppo che non poteva prescindere dal venire a patti con la politica e l’establishment economico dove comandavano boiardi e banchieri. Ci guadagnarono in relazioni, ma in qualche caso ci persero anche molti soldi, come dimostrano gli sfortunati investimenti in Telecom e nella Rcs. Però il centro del loro universo, oggi come allora, è sempre rimasto Ponzano Veneto e quella Villa Minelli che da quartier generale è divenuta per antonomasia il simbolo del loro universo. Dove ancora si incrociano, pur avendo nettamente separato gli ambiti di competenza, il sior Luciano e il sior Gilberto.

I Benetton mi fanno venire in mente un episodio che serve a introdurre un’altra caratteristica dell’imprenditoria veneta. Quando Francesco Gaetano Caltagirone fece un’offerta per il Gazzettino, ci fu una sorta di levata di scudi verso il “palazzinaro” romano che voleva entrare senza permesso in casa altrui. La proprietà del giornale era composta da una ventina di bei nomi dell’industria locale (tra cui appunto Benetton), gente che se avesse voluto avrebbe potuto respingere senza sforzi l’invasore. Ma il tasso di litigiosità tra i soci era talmente alto che alla fine l’editore del Messaggero ebbe facile gioco nel far suo il giornale. Unica consolazione, per gli sconfitti, l’averlo costretto a strapagarlo. Di epidosi come questi ce ne sono tanti. Vengono in menteper esempio le immancabili divisioni ogni volta che si tratta di eleggere il presidente di Confindustria, così fu in particolare nel 2000 per la nomina del campano Antonio D’Amato che segnò un muro contro muro tra grandi come Marzotto e Benetton, e i piccoli guidati dall’imprenditore trevigiano della ceramica Nicola Tognana.

Insomma, i veneti sono attaccati al campanile, individualisti, litigiosi. E soprattutto non fanno nulla per nasconderlo. «Non sanno fare squadra» direbbe Luca di Montezemolo, e dunque non fanno tra loro sistema. E poi, ma stavolta la prerogativa è nazionale, sono restii ad investire nelle proprie aziende. Specie se qualcuno, le banche o la borsa, può farlo al posto loro. Ma la crisi, che ha occluso i canali di approvvigionamento, ha fatto in molti casi di un limite culturale il principio di un dissesto. Filippetti lo coglie molto bene raccontando di alcune situazioni (la vicenda dell’Aprilia di Noale) che rendono il processo in tutta la sua evidenza.

Scritto oggi, mettendo impietosamente in fila i numeri, Serenissimi affari è la foto storia del declino di un modello industriale che aveva dato nel corso degli anni ‘80 e ‘90 i suoi frutti migliori. È il rovescio della medaglia di storie che furono di successo, e che in parte lo sono ancora, anche se un ciclo è finito e ora occorre trovare nuove strategie e soprattutto energie per andare avanti. Per capire la portata di questo declino basta confrontare le capitalizzazione di borsa della aziende che sono qui citate, eccezion fatta per Luxottica passata dai 6,4 miliardi del 2005 (giusto per prendere un anno pre crisi) ai 25,6 dell’agosto 2014. Il resto, da Geox, Safilo, Stefanel al trittico tecnologico di quella che Filippetti chiama “la Silicon Valley in Saor” (Nice, Tbe e Eutotech) hanno visto il loro valore di mercato dimezzarsi.

In molte aziende, ciò è coinciso anche con l’ineluttabile passaggio generazionale che in generale è sempre stato un problema del capitalismo italiano ossessionato dal dogma del controllo. Ma ancora prima dalla tendenza accentratrice della proprietà: non sarà infatti un caso se Benetton Group negli ultimi undici anni ha cambiato sei amministratori delegati, e se recentemente Leonardo Del Vecchio ha liquidato il suo capo azienda, Andrea Guerra, uno dei migliori manager italiani, non per gli scarsi risultati (Luxottica è una gioiosa macchina da utili) ma perché reo di essersi mosso con troppa autonomia. O se anche Mario Moretti Polegato, l’uomo che ha inventato la scarpa che respira, alla fine è entrato in rotta di collisione con il manager con cui ha costruito il successo della sua Geox.

Ma è proprio il declino del Benetton Group rispetto alle altre aziende del gruppo di Ponzano che certifica un’altra verità: là dove la famiglia vuole mantenere saldo controllo e gestione dell’azienda, anche al prezzo di scaricarvi lotte e tensioni tra i suoi componenti, il declino si fa più rapido e le risposte per contrastarlo più lente e confuse. Dove invece è un management forte a gestire, vedi il caso di Autogrill il cui capo azienda, Gianmario Tondato, è certo uno che non le manda a dire ai suoi azionisti, risultati e prospettive sono nettamente migliori. Quello che ha scelto di raccontare Filippetti resta comunque un Veneto industriale privilegiato, e per almeno due motivi: ha potuto trovare sui mercati borsistici capitali decisivi per il suo sviluppo, e ha sempre avuto a che fare con un sistema bancario che non gli ha mai chiuso i rubinetti, anche quando si trattava di contribuire a pesanti piani di ristrutturazione, non importa se lo faceva non certo per filantropia ma per salvaguardare i suoi crediti.

Ben diversamente è andata alla galassia di piccole e medie aziende che costituisce la peculiarità del contesto industriale nordestino, grazie al dinamismo dei suoi imprenditori e la sua accentuata vocazione all’export. I morsi della durissima crisi mondiale, insieme al venire meno del finanziamento bancario, hanno messo a dura prova un ceto industriale che già di suo ha sempre sofferto di una cronica mancanza di capitali propri. Le cifre del 2013, le ultime disponibili, confermano la drammaticità del quadro recessivo: un Pil in contrazione dell’1,6%, 8 mila unità produttive in meno rispetto all’anno precedente, una riduzione della base occupazionale di oltre 16 mila posti, la più elevata dal 2009. Unico dato positivo l’export, a conferma della solidità di una propensione del sistema che non è mai venuta meno: un rotondo più 2,8% a fronte di un dato nazionale in calo dello 0,1%.

Questi libro si chiude là dove per molte delle aziende citate inizia un futuro che dovrà per forza di cose segnare una profonda discontinuità con il loro passato. Ed è un futuro pieno di incognite ben oltre il dato di previsione generale per il 2014, che per il Veneto segnala un Pil in impalpabile aumento dello 0,2/0,3%. In molti casi i piani di ristrutturazione dovranno essere pesanti, il contenimento dei costi resta un imperativo categorico, la ricerca di nuovi mercati una direttiva strategica ineludibile così come quella di capitali per rilanciare la competitività. Definitivamente archiviato il modello del piccolo è bello, la globalizzazione inciderà pesantemente anche sugli assetti proprietari costretti ad aprirsi, come del resto accade a livello di industria nazionale, ai nuovi ricchi delle economia emergenti.

Gli affari veneti (non solo in Borsa) raccontati nel libro di Simone Filippetti

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