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Centinaia di donne, bambini e intere famiglie scappano da Shuja’iyeh, alla periferia orientale di Gaza città. Scappano dalle proprie case bombardate da ore dall’esercito israeliano, che spiana la strada all’avanzata delle forze di terra: in testa i bulldozer, poi i carri armati e infine i blindati della fanteria. I feriti e i morti, lasciati indietro tra le macerie, sono decine.

È guerra e guerriglia al tempo stesso. La radio di Hamas annuncia che al mattino presto a Shuja’iyeh 13 soldati israeliani sono stati uccisi dalla resistenza, – i palestinesi chiamano così i miliziani di Hamas e delle altre fazioni – che ha atteso l’avanzata e fatto esplodere a distanza barili bomba interrati. Bloccati i blindati, unità di commando delle Brigate Qassam sono sbucate dalle retrovie colpendo i soldati a tiro. È una notizia incredibile, una manovra di combattimento urbano che non sembrava alla portata dell’ala militare di Hamas (…) .

La guerra a Gaza, asimmetrica in quanto combattuta tra uno degli eserciti più sofisticati al mondo e un movimento armato organizzato, assume una luce inaspettata sul piano strategico.
Cinque anni fa, i soldati israeliani penetrarono nella Striscia incontrando una blanda opposizione da parte dei miliziani islamici. Stavolta, no. Entrano per cercare i tunnel, ma trovano combattenti pronti alla guerriglia. Centinaia di affiliati di Hamas infatti – sostengono a Gaza – sono andati nel frattempo ad addestrarsi all’estero, in Iran e Siria probabilmente, e ora sono organizzati in un vera e propria struttura militare: unità di lancio dei razzi, unità di artificieri che preparano gli esplosivi da nascondere nei tunnel sotterranei, forze speciali di assalto e infine unità di appostamento, che mappano i movimenti dei droni e delle forze di terra israeliane e che, partiti gli agguati, funzionano anche da fuoco di retrovia, senza contare i cecchini.

Le Brigate Qassam non possono sconfiggere Israele, ma possono fare male, come questa mattina. L’evoluzione di Hamas arriva al punto da competere con la propaganda video dell’IDF. I miliziani filmano i propri attacchi e – altra prima volta per me – ne distribuiscono le immagini ai media.

Dal punto di vista della gente di Gaza, ora, nel momento in cui parlano le armi, Hamas non è più il governo ladro incapace di distribuire benessere, ma l’esercito che serve per difendersi. Le testimonianze raccolte in strada tra chi ha perso la casa, un figlio o i genitori convergono. Non vogliono sentire parlare di pace. Come raccontano in numerose testimonianze, il dolore è troppo. Sosteniamo Hamas, perché ci protegge e ci vendica. Gli Israeliani pretendono lo stesso dal proprio esercito. Ha una logica, ma è furiosa e altrettanto cieca. I cadaveri a Shuja’iyeh sono decine. Li tirano fuori i medici e li ritraggono i fotografi che si catapultano dentro il quartiere attraverso il corridoio umanitario di un paio d’ore concordato nel pomeriggio. È il giorno peggiore dall’inizio della guerra. Israele e gli Stati Uniti addossano la colpa a Hamas, nonostante proiettili e missili siano i loro in questo caso. Il gruppo promette che il sangue versato sarà vendicato. Non ci sono spiragli di una tregua vera e i civili presi in mezzo non sanno dove riparare. In due mesi un totale di quasi mezzo milione di persone lascerà le proprie case, un quarto della popolazione di Gaza.

I bombardamenti dell’IDF, mirati, ma pur sempre diretti al groviglio di cemento ed esseri umani che è la Striscia, scaricano una vasta potenza di fuoco su aree largamente abitate. La conseguenza è che dall’inizio delle ostilità, secondo il ministero della Sanità di Gaza, i morti sono già oltre 500. Gli avvertimenti israeliani con sms e volantini non bastano a salvare la popolazione civile. Ricompare il roof knocking, esplosioni a intensità limitata che «bussano sui tetti» per allertare i residenti di una casa dell’arrivo imminente dei missili veri e propri, quelli degli F16. Le sortite dei caccia spazzano via intere famiglie riunite per l’iftar, la cena che rompe il digiuno del Ramadan.

Domenica sera, a Bani Suheila, muoiono in 25 e altri sono feriti quando una palazzina di tre piani viene sventrata, senza neanche preavviso. Madre, un figlio e quattro nuore con rispettivi bambini muoiono in un colpo. Secondo quanto ricostruito da un’organizzazione israeliana per i diritti umani, la famiglia Abu Jamea è stata praticamente cancellata per aver invitato a cena un operativo del braccio armato di Hamas, che morirà insieme con loro. Uccidere un mucchio di civili, tra cui diciannove bambini e tre donne incinte, per eliminare un obiettivo militare, neanche fosse il capo di Hamas, solleva molti dubbi. Amnesty International ha denunciato altri sette casi analoghi.

Se le cose stanno così, esiste un posto sicuro dove rifugiarsi a Gaza? Tanti se lo chiedono. Lasciare la Striscia è impossibile. I valichi con Israele sono chiusi per l’embargo, la frontiera con l’Egitto è aperta solo ai feriti gravi, la costa è presidiata dalle motovedette. Rimane Gaza, una striscia di terra lunga una quarantina di chilometri e larga in media dieci. Un conoscente di un’amica, in una chat a tre su Facebook, coglie il dramma in poche righe: «All’inizio ho passato il tempo a cercare un punto sicuro dentro l’appartamento, spostando i miei figli di continuo da un lato all’altro, calcolando il tipo di armi usate, un drone, un aereo, una nave da guerra. Poi ho visto delle case distrutte e ho capito che era tutto inutile: se venissimo colpiti il nostro appartamento, semplicemente, sparirebbe dalla faccia della Terra».

Le case di parenti e le scuole ONU sono altrettanto insicure. I ricchi hanno preso una camera negli alberghi della stampa internazionale a Gaza città. Chi può permetterselo si rifugia dove possibile, incluso nella Chiesa cristiana Greco-ortodossa di San Porfirio.

Articolo e video tratti da ‘Trappola Gaza- Nel fuoco incrociato tra Israele e Palestina”, l’ebook- reportage del giornalista Gabriele Barbati.

L’ebook è pubblicato da Informant ed è disponibile in tutti gli store online. 

Trappola Gaza

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