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Matteo Renzi ha lasciato il testimone alla Lettonia con un discorso sul metodo pronunciato al Parlamento di Strasburgo: “Se l’Europa non cambia marcia, diventerà il fanalino di coda del mondo intero”, ha detto.

Come dargli torto? Nessuna delle innovazioni tecnologiche, sociali, culturali, nel mondo dell’intrattenimento e in tutti i campi è venuta dall’Unione europea nell’ultimo quarto di secolo. Il capo del governo ha anche difeso il ruolo dell’Italia, compresi i quattrini che sborsiamo ogni anno per salvare non solo la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda, ecc., ma di fatto anche le banche tedesche, francesi o inglesi che hanno gonfiato le bolle dei cosiddetti Pigs.

Anche qui, Renzi ha ragione e ha fatto bene a mettere i puntini sulle i. Poi ha aggiunto: “In questi sei mesi ci pare di aver visto un cambiamento profondo nella direzione. Ma ancora non nei fatti”. Giusto essere cauti, ma la verità è che questo cambiamento non solo non si è realizzato, ma francamente non lo si è nemmeno visto. L’aula semivuota stava lì a dimostrarlo. E Matteo Salvini ne ha approfittato: “E’ il deserto, non ti ascoltano nemmeno i tuoi”. Ha ragione il leader della Lega a parlare di vuoto assoluto per il semestre italiano?

Per rispondere in modo concreto, bisogna analizzare le novità introdotte per sfruttare i margini di flessibilità, il nuovo mantra che proprio l’Italia, insieme alla Francia, vorrebbe accompagnare, se non proprio sostituire, al vecchio paradigma al quale la Germania resta ostinatamente attaccata: la stabilità.

Si tratta di meccanismi abbastanza astrusi che andrebbero esaminati più in dettaglio da tecnici più preparati. Da quel che si capisce, l’Italia può correggere il suo bilancio pubblico di un quarto di punto anziché mezzo punto. Non male, però ci vuole davvero tanto ottimismo della volontà per definirlo una svolta. Quanto agli investimenti, non saranno scorporati dal calcolo del deficit, si potrà solo scomputare il contributo nazionale ai fondi strutturali. Mentre il piano Juncker resta sempre come l’araba fenice, che ci sia ciascun lo dice dove sia nessun lo sa.

Renzi ha ammesso la sconfitta secca sul “made in”, che interessa molto l’economia del Paese e il governo aveva trasformato in una bandiera, anche tenendo conto dell’Expo che si apre a maggio. Bisognerà capire se la débâcle è frutto di errore tattico; certo è lo specchio evidente dei rapporti di forza e del fatto che l’Italia in questo momento in Europa è debole e sostanzialmente isolata. La Germania, ben più forte, ha difeso il potere di riciclare prodotti italiani e rivenderli con proprie etichette. Tutto ciò alimenta, necessariamente, anche il sentimento critico se non proprio anti-europeo che si diffonde in quella Italia che per mezzo secolo e oltre era stata un faro dell’europeismo vecchia maniera.

Oggi l’Unione si è ri-nazionalizzata, è un processo cominciato da tempo, accelerato dalla crisi durante la quale è prevalsa la vecchia regola di fregare il proprio vicino. E il semestre di presidenza non è riuscito non tanto a invertire (compito eccessivo), ma nemmeno a intaccare il senso comune che considera la rinascita della terza economia della Ue un basket case, come dicono gli americani, cioè una causa persa.

Del resto, lo spettacolo pietoso messo in scena a Strasburgo dal pollaio politico italiano, ha rafforzato questa convinzione. Non c’è nessun interesse nazionale perché nell’Italia gucciardiniana ciascuno pensa a “lo suo particolare”. Non ci può essere alcuna proposta italiana, perché quel che dice Renzi viene non solo criticato (come è normale), ma sbeffeggiato da Beppe Grillo o da Matteo Salvini.

Lo stesso accade in Francia? Ebbene no: nonostante Marine Le Pen picchi duro su socialisti e gaullisti, poi è pronta a difendere i vigneron della Borgogna. O basti guardare quel che è avvenuto in Germania con le banche: certo non ci sarebbe stata la stessa omogeneità domestica se l’Italia avesse deciso di nazionalizzare il Monte dei Paschi.

Detto questo, Renzi ha sbagliato a farsi trascinare nel pigolìo italico. Avrebbe dovuto volare alto (se le ali lo avessero assistito) e lasciare al suo successore un dossier di cose da fare per rilanciare la Ue. Il fatto è che questo dossier non è stato in grado di presentarlo in sei mesi, non poteva certo inventarlo in sei ore.

Stefano Cingolani

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