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L’attacco all’Occidente non è mai finito. Dall’11 settembre 2001 abbiamo assistito, sgomenti e impotenti, ad un tiro al bersaglio continuo. La difesa si è concretizzata in alcune lunghe, estenuanti, inconcludenti, sanguinose campagne militari che se hanno tolto di mezzo il famigerato capo di Al Qaeda, Bin Laden, in quel di Abbottabad, in Pakistan, hanno contribuito ad alimentare la guerra asimmetrica degli integralisti islamici che sfidano la sofisticata tecnologia occidentale con la forza del sacrificio personale compiuto nel nome di una religione che tradiscono ogni giorno.

Purtroppo qualcuno pensa che si tratti di gruppi sparpagliati nelle più disparate contrade del Globo, privi di appoggi e di simpatie. Non è così. Le “cellule” che agiscono dove vogliono, come vogliono e quando vogliono, nel mondo musulmano possono contare su una omertà culturale e sociale quando non sulla complicità esplicita di masse imponenti educate ad immaginare che il giorno della islamizzazione è ineluttabile, si avvicina sempre di più. Le condanne formali e di circostanza da parte dei governati musulmani illudono chi vuole evitare di guardare negli occhi il nemico ed ammettere che il conflitto è in atto e finirà soltanto con la vittoria di una parte sull’altra. Le élites occidentali non sembra se ne rendano conto e si fidano delle ipocrite promesse di paesi che occultamente sostengono il terrorismo islamista e con i quali continuano a fare affari, a farsi ricattare, ad intrattenere rapporti “cordiali”.

Se Abu Bakr al-Baghdadi, il califfo dell’autoproclamato Stato islamico tra Siria e Iraq, non riconosciuto da nessun Paese musulmano, ma neppure da nessuno di essi apertamente avversato, ha potuto assumere un ruolo centrale nell’universo islamista, dove è in corso un vero e proprio scontro per conquistare la leadership (ma gli obiettivi sono gli stessi: Isis, Al Qaeda, Boko Haram ecc. sono filiazioni del medesimo credo), ha potuto dal niente ascendere in breve tempo al potere e lanciare la sua sfida al mondo mediterraneo dove sogna di estendere il suo “califfato”, vuol dire che c’è stata quanto meno una “distrazione” da parte dei governi, dell’intelligence, dell’informazione occidentale.

L’aver permesso ad un fanatico di organizzare una guerriglia contro la sua gente per addomesticarla e poi estendere ovunque la sua macabra ombra, è un segno grave di impotenza davanti al quale i musulmani di tutte le tendenze, dalla Mauritania all’Indonesia, passando per l’Europa dove il reclutamento della manovalanza terrorista è particolarmente intenso, non sono insensibili. E guardano al folle progetto di al-Baghdadi se non con simpatia, certo non con ostilità.

Complici le cosiddette “primavere arabe” – il più colossale inganno perpetrato ai danni dell’Occidente che se ne è lasciato abbagliare, in omaggio alla libertà naturalmente – si sono diffuse, laddove dei poteri riconosciuti tenevano a bada masnade di sbandati e di fanatici, bande che agiscono oggi in sostanziale autonomia, ma concordando sull’obiettivo: la demolizione dell’Occidente. Demolizione che non passa soltanto per Parigi, l’Europa, gli Stati Uniti, ma si spinge nello stesso mondo arabo-musulmano per impartire “lezioni” che è bene la “fratellanza” islamica tenga a mente: mentre si compiva la strage nella redazione di “Charlie Hebdo”, venti morti mietevano altri islamisti a San’a, capitale dello Yemen, centrale di smistamento dei più avvelenati terroristi che da lì facilmente raggiungono un altro dei loro santuari criminali: la Somalia, oramai inesistente come Stato e comunità nazionale,  un altro “califfato” che il mondo libero sembra aver abbandonato.

Sarebbero così tracotanti gli islamisti se si scontrassero con l’aperta ostilità dei Paesi musulmani dotati di cospicue risorse militari ed economiche? Potrebbero, insomma, tenere in piedi le loro industrie stragiste se il Pakistan, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, l’Egitto, l’intero Maghreb, gli stessi palestinesi non soltanto prendessero le distanze dalla loro ignobile e sporca guerra, ma li combattessero apertamente? Sono interrogativi che giriamo ai governi occidentali i quali se pensano di difendere i loro territori attendendo che i nemici si manifestino come hanno fatto a Parigi e prima ancora a New York e a Madrid (191 morti, giusto dieci anni fa), si sbagliano di grosso. Ce li abbiamo in casa, ma anche ai confini e ben oltre, coloro che programmaticamente vogliono islamizzare il mondo per attuare un ancestrale piano orchestrato culturalmente nelle madrasse e nelle università musulmane da dove provengono i fanatici che da Mosul lanciano fatwe contro chiunque, fosse pure fedele al Profeta, ma non incline ad insanguinare le strade del mondo.

L’Europa ha conosciuto e raccolto sfide simili. Per nove secoli ha saputo opporsi alla islamizzazione. Da Poitier, a Vienna, da Lepanto a Belgrado, ha difeso la propria identità con tutti i mezzi. Temiamo che oggi il Vecchio Continente e l’intero Occidente siano più deboli, meno corazzati culturalmente per respingere l’offensiva dei nuovi barbari.

Che l’Eurabia debba essere il nostro destino? L’interrogativo, drammatico e spaventoso, è molto più dolorosamente attuale oggi di quattordici anni fa quando sembrò squarciarsi il cuore dell’Occidente.

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L'Eurabia è il nostro destino?

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